Il suono dell'universo.

martedì 2 ottobre 2012

L’arcipelago delle Tremiti nel puzzle petrolchimico: paradiso perduto?

Il mare delle Tremiti
Di Chiara Madaro; Lecce, 18.09.2012

Intro

Avviare prospezioni petrolifere in un arcipelago che è area marina protetta e affidarle ad una multinazionale indagata in decine di processi nei quali è difficile stabilire se la colpa di disastro ambientale sia l’accusa più grave, non ha molto senso.

Ma è quello che è successo lo scorso 7 agosto quando il Ministro Clini ha dato il via alle esplorazioni al largo dell’arcipelago delle Tremiti, area marina protetta con avviso sulla GU n. 295 del 19-12-1989. Titolare delle esplorazioni sarà la compagnia Petroceltic la quale ha delegato Eni per le questioni operative.



Menuccia Fontana - Italia Nostra Gargano
Il provvedimento arriva come un fulmine a ciel sereno per le istituzioni e gli abitanti delle regioni del basso Adriatico che già lo scorso anno avevano fatto ricorso al Tar a causa di un’autorizzazione dello stesso tipo. Governi in malafede per Menuccia Fontana, responsabile della sezione Gargano di Italia Nostra che, in occasione di un Consiglio comunale organizzato in tutta fretta a Termoli il 6 settembre scorso dal sindaco Di Brino ed aperto alle istituzioni e alle associazioni ambientaliste di Puglia, Molise e Abruzzo, ricorda: “L’anno scorso presentare quel famoso ricorso è stata un’avventura rocambolesca perché quella concessione non era stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale bensì su dei fogli governativi che vanno solo al Ministero. Quindi l’opinione pubblica non poteva informarsi. Io son riuscita ad avere quel famoso foglio perché, conoscendo i soggetti,  avevo fatto dall’inizio una richiesta formale al ministero e, ob torto collo, ho ottenuto il fax di quella autorizzazione”. Ma quanto meno lo scorso anno c’erano i margini di tempo necessari per poter fare ricorso. Questa volta si è passati in maniera inaspettata dal decreto alla legge appellandosi ad un errore tecnico di Puglia e Molise che, ribellandosi al decreto lo scorso anno, avevano dichiarato di essere contro le trivellazioni trascurando di menzionare le prospezioni. “Questa è strumentalizzazione” afferma ancora indignata la Sig.ra Fontana. Ma chi poteva pensare che qualcuno potesse essere interessato a capire quanto petrolio c’è sotto le Tremiti se era già stato detto chiaramente che non ci si prestava ad assecondare la raccolta del petrolio? Se già il Tar si era espresso a favore del ricorso presentato dalle Regioni?

Da Sx: Raffaele Vigilante, il sindaco Di Brino, Stefano Pecorella
Rincara la dose Raffaele Vigilante della ‘Rete no- triv’ che tuona: “Io penso che ci sia del dolo perché sappiamo che i tribunali sono chiusi fino al 15 settembre e proporre un ricorso al Tar con un decreto così immediato è difficile. Non mi fido e non vorrei che le navi per le prospezioni siano già fuori dal Golfo di Manfredonia con gli air gun ”.

Non si capacitano i sindaci di Termoli e Tremiti. “Pensate che in quest’area c’è un progetto per l’istallazione di un rigassificatore. C’è un progetto per la realizzazione di un parco eolico off shore. E Termoli era stato individuato come sito per una centrale nucleare – dice il sindaco Di Brino - mancavano solo le trivellazioni. Forse il governo centrale ritiene che siamo un popolo poco reattivo e quindi portato a sopportare qualsivoglia decisione”.

No, non è questo. Il Governo, o i Governi, sanno bene che le comunità si ribellano a questo tipo di provvedimento. Sanno bene che la ribellione non è scomposta ma organizzata in accordo con Regioni, Province e Comuni interessati che, compatti, ricorrono al Tar.

In particolare la Regione Puglia ritiene di proporre un’alternativa del tutto lecita e valida se vista alla luce dei recentissimi dati rilevati dall’Istituto nazionale di statistica da cui si apprende che la Puglia, da gennaio a giugno del 2012, ha registrato un incremento dell’11,3%, contro la più modesta crescita del 4,2% a livello nazionale e dello 0,9% nell’Italia meridionale. In tempi di crisi non è poco per una regione del Mezzogiorno. Il segreto? Investire su ambiente, turismo, politiche giovanili e a sostegno del lavoro, energia solare e cultura.

Quindi la chiave non è il ‘Popolo Bue’ ma risiede nel Decreto 208/2008 ribattezzato con il nome di  ‘Decreto salva-Eni’ e convertito in Legge 13/2009 che depone gli enti locali interessati  dal processo decisionale nelle zone di loro competenza  chiamandoli solo a dare pareri ma “senza obbligo di risposta”. Parole al vento, insomma, per i cittadini-sudditi che vogliano opporsi.

Lo sa bene il Ministro dell’Ambiente Clini che afferma: “E’ inutile protestare, abbiamo agito rispettando la legge”; leggi fatte ad hoc e per le quali subiamo procedure di infrazione  da parte della Comunità europea; come la n. 2007_4679 per violazione della direttiva 2004/35 CE, per la non corretta applicazione del principio “chi inquina paga”. Con la L 13/2009, infatti, il Governo condona ad Eni i disastri ambientali provocati da Crotone a Mantova, da Porto Torres a Gela. Perché la ‘salva-Eni’ stabilisce che avvenga un accordo tra Governo ed Eni (come si vedrà più avanti in conflitto di interessi) i quali stabiliranno una cifra forfettaria oltre la quale non si potrà andare e che “la stipula del contratto di transazione (…) comporta abbandono del contenzioso pendente e preclude ogni ulteriore azione di rimborso degli oneri di bonifica e di ripristino ed ogni ulteriore azione risarcitoria per il danno ambientale (…), nonché per le altre eventuali pretese risarcitorie azionabili dallo Stato e da enti pubblici territoriali”. Un Decreto cinico dalla devastante portata e dalle importanti conseguenze.

Dalla consultazione del sito inglese di Petroceltic, infatti, si comprende che l’Italia è il terzo paese produttore di petrolio e gas nell’Europa occidentale. Esistono prove che attestano l’esistenza di riserve superiori a 622m barili di petrolio greggio e 8 TFC di gas (226 miliardi di metri cubi). Negli ultimi anni c’è stato un crescente interesse rispetto alle risorse energetiche esistenti in Italia e un gran numero di compagnie sono state attratte verso quest’area del Mediterraneo. Inoltre l’Italia è vista da molti come un probabile polo per l’importazione di gas in Europa. Dalle affermazioni che si leggono sul suo sito, Petroceltic dimostra di seguire con attenzione i movimenti e le intenzioni dei ministri italiani che si alternano in Parlamento.

Riportando i recenti commenti espressi da parte del Ministro dell’Industria Corrado Passera, il direttivo di Petroceltic si compiace di come il governo tecnico italiano  stia sviluppando una Strategia Energetica Nazionale che aspiri a raddoppiare la produzione domestica di idrocarburi in tempi brevi. Per questo la sensazione espressa dalla multinazionale è che il governo italiano riconosca di dover allineare il sistema normativo agli standard europei e che i tempi per ottenere le autorizzazioni debbano essere ridotti. “E’ chiaro – si legge sul sito - che la visione del nuovo Governo italiano nel settore dell’upstream rappresenta una chiave potenziale per l’occupazione, la crescita e lo sviluppo. Petroceltic accoglie con favore questo cambiamento di approccio alla questione e crede che ciò darà impulso allo sviluppo e alla crescita del nostro portfolio italiano”.

Ma è sicuro che queste operazioni siano effettivamente convenienti?

 

Ambiente e salute - Effetti delle prospezioni

Termoli: i comuni del basso Adriatico basano la propria economia su pesca, turismo, storia 
“Il tema delle contraddizioni della crisi ambientale è un tema che viene evocato dalle popolazioni, e anche da una parte della comunità scientifica, e forse rispetto alla dittatura dei combustibili fossili sul mercato energetico mondiale, bisognerebbe rispondere in maniera più innovativa – dice dal suo blog il Presidente della RegionePuglia Vendola il 14 settembre all’indomani dell’incontro con il Ministro Clini - Io mi aspetto da qualunque classe dirigente una risposta nel merito e non semplicemente la risposta che la procedura ci impone”.

Già lo scorso anno Puglia e Molise avevano fatto ricorso al Tar opponendosi alle trivellazioni. Ad un anno di distanza i Ministri Passera e Clini si sono appellati al fatto che nel ricorso si parlava di trivellazioni non di prospezioni e, rispettando la legge vigente alla lettera, hanno dato il via alle prospezioni.

Leggi non attente, pensate per comparti stagni, non rispettose del principio della prevenzione nemmeno in presenza di studi che dimostrano il danno – come è stato per l’amianto – continuano, di fatto, ad alienare i cittadini dai diritti professati dalla Costituzione. Come l’Art. 2 che dichiara: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…)” precisando che “lo stesso diritto leso comporta il risarcimento del danno”. O l’Art.32 che tutela la salute e il diritto degli individui a vivere in un ambiente salubre  e di fruire dei servizi minimi sufficienti per l’integrità fisica e sociale dell’ambiente”.


Prof.ssa Maria Rita D'Orsogna
Le trivellazioni provocano danni intuibili al territorio. Le prospezioni vengono, invece, presentate come qualcosa di innocuo. Di cosa si tratta? E perché gli ambientalisti vi si oppongono con tanta energia? La prospezione è una verifica della quantità di petrolio contenuto nel sottosuolo e per questo vengono utilizzati gli air gun. Si tratta di cannoni che sparano onde sonore di fortissima intensità. Il fisico Maria Rita d’Orsogna ha pubblicato uno studio nel quale dimostra gli effetti negativi di questi metodi di ricerca.

Una delle conseguenze riguarda i cetacei che rimangono confusi dalle onde emesse da queste armi e si spiaggiano sulle coste. In Puglia, dove da oltre un anno sono iniziate le prospezioni della Northern Petroleum, in pochi mesi si sono registrati spiaggiamenti di circa 50 capodogli.

Nel 2009 il fenomeno iniziò con lo spiaggiamento in contemporanea di ben 9 capodogli del peso di 10-15 tonnellate ognuno. Un fenomeno eccezionale per il nostro paese. Capitaneria di Porto, Asl, Esercito, Forze dell’ordine intervennero per capire il motivo di questo suicidio di gruppo. Si riuscì a far ritornare al largo solo 2 degli esemplari. Gli altri erano già morti o in agonia a causa dello schiacciamento del sistema respiratorio. Quindi si operò per l’estrazione degli organi interni da destinare all’inceneritore e alla sezione delle carcasse che furono divise in due parti allo scopo di conservare il più possibile intatto lo scheletro in modo che, una volta decomposti i tessuti che lo avvolgevano, potesse essere studiato dagli specialisti. Nel frattempo fu impedito l’accesso alla spiaggia - in seguito bonificata - e individuata una cava adatta ad ospitare le carcasse.  Per queste operazioni il prefetto di Foggia Nunziante mise a disposizione di Agritur, la società che si occupò dello smaltimento,  150mila euro che non furono sufficienti. Poi si mise di traverso il Ministero con l’intenzione di gestire la faccenda per poi dileguarsi. Gli specialisti del Ministero arrivano in tempo per negare l’eutanasia a quelle bestie enormi che dovettero finire i loro giorni in agonia e tra i lamenti. Ma forse costava troppo un’iniezione letale per un pesce. ‘La Repubblica’ nella cronaca di quei giorni racconta che Marucchelli, proprietario della ditta Agritur a cui erano stati assegnati i lavori di interramento delle bestie, aveva sostenuto una spesa di 450mila euro più Iva per un totale di 532 mila euro. La prima fattura dei 150mila euro non è stata più corrisposta. Ma intanto il Sig. Marucchelli, che aveva anticipato il 70% della spesa, ha smesso di pagare i dipendenti e ha dichiarato fallimento. Quindi in questa storia c’è già chi ci ha perso. E tanto. Marrucchelli spera di poter mettere in vendita i cetacei a qualche museo per recuperare.

Ma i costi degli spiaggiamenti non sono l’unico problema. Il sindaco di Termoli Di Brino ricorda che "sui fondali del Mediterraneo si registrano alte quantità di catrame pelagico: 38 mg per metro quadro a fronte dei 10 mg del Mare dei Sargassi e 3,8 del Mare del Giappone". Quando le onde vengono sparate dagli air gun quel materiale si rimescola e va in circolo. Se questo avviene in un mare sostanzialmente chiuso come è l’Adriatico, un mare inadatto a smaltire le sostanze inquinanti, si comprende cosa avverrebbe alle specie ittiche che ancora circolano. E non è solo una faccenda preoccupante per naturalisti troppo sensibili.

Certamente gli idrocarburi entrerebbero nella catena alimentare: la nostra.

Recenti studi e inchieste condotti in aree compromesse hanno dimostrato la minaccia che queste attività rappresentano per la specie umana. Così come i metalli pesanti, anche gli idrocarburi tendono ad accumularsi in alcuni tessuti degli esseri viventi. Attraverso cibo o bevande contaminate o per via cutanea, queste sostanze si diffondono rapidamente perché liposolubili e dunque in grado di attraversare le membrane cellulari e depositarsi nei tessuti adiposi e negli organi drenanti (reni e fegato). Da qui vengono metabolizzati in pochi giorni ed eliminati. Ma nel frattempo hanno avuto modo di legarsi a DNA ed RNA provocando dunque alterazioni genetiche. E’ quello che è successo a Gela dove Eni ha installato i suoi impianti già negli anni 60 e le cellule di chi ci vive non hanno avuto modo di metabolizzare ed eliminare quelle sostanze che sono nel pesce, negli ortaggi e nella falda. Qui dagli anni 90 si registrano casi gravi di malformazioni congenite totali: il 5% in più ovvero 5 volte superiore rispetto alla media nazionale. Si parla di spina bifida, microcefalia, cardiopatia, ipospadia (malformazione dell’apparato urogenitale), difetti del sistema nervoso, riduzione degli arti, onfalocele (una patologia congenita della parete addominale, a causa della quale i bambini nascono senza muscoli né pelle nella zona ombelicale per cui gli organi addominali – fegato, intestino e stomaco – fuoriescono avvolti solo da una membrana trasparente), difetti minori (appendice preauricolare, piede torto posturale, angiomi, criptorchidismo, dislocazione congenita dell’anca) e si registrano casi di neoplasie e cancri per una media 10% superiore rispetto alla media nazionale, mentre i cancri al polmone arrivano al 20% in più. Questi ed altri dati possono essere reperiti in uno studio di qualche anno fa curato da Fabrizio Bianchi, Sebastiano Bianca, Fabrizio Minichilli, Anna Pierini e Mariangela Protti per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Sezione Epidemiologia dell’IFC di Pisa e per l’Azienda ospedaliera G. Garibaldi, Servizio di Genetica Medica di Catania. Sarebbero necessarie ulteriori ricerche così come richiesto di recente in Senato (Atto n. 4-08112 Pubblicato il 7 agosto 2012, nella seduta n. 787)
Al petrolchimico di Gela lavorano 3mila persone. Che si tengono stretto il posto di lavoro malgrado tutto. Quante decine di migliaia in più potrebbero lavorare nel settore del turismo in una zona come quella, ricca di storia, tradizioni e cultura che sempre più attirano turisti da tutto il mondo?

Dei delitti e delle pene: l’inghippo legale.



L'Avvocato Schiesaro e la PM Fasolato
Ma oggi la visione prevalente è di tipo vetero-finanziario. Il 20 ottobre 2011, in occasione di un’audizione alla Camera dei Deputati, l’avvocato dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia Gianpaolo Schiesaro denuncia che difficilmente verranno eseguite sentenze contro Eni perchè “se Eni fallisce, fallisce l’Italia’.  Si, perché lo Stato italiano è azionista di maggioranza di Eni. Nel 1955, è lo Stato italiano che fonda l’Ente Nazionale Idrocarburi. La presidenza spetta ad Enrico Mattei che, come è noto, muore in un controverso incidente aereo nel 1962. Da quel momento lo Stato italiano fa qualcosa di strano: interrompe il lavoro di Mattei che stava lavorando all’autonomia energetica del paese – per fortuna, considerando cosa è successo a Gela dove la multinazionale è presente dagli anni 60 – e vende gradualmente le sue azioni fino al 2001 rimanendo comunque azionista di maggioranza con un 30%.  Forse è questa la chiave di soluzioni così avventate. D’altra parte, secondo Schiesaro, anche le bonifiche sono un affare. “Dietro queste operazioni girano molti soldi, trattandosi di interventi molto ampi che richiedono l’esborso di notevoli importi economici – dice – ma il motivo fondamentale è che la bonifica avviene sempre meno a carico del soggetto responsabile del danno”; non è quindi un costo accessorio alla produzione ma un costo sociale addebitato ai cittadini stessi.

Denaro pubblico, dunque, su cui si concentrano gli appetiti di molti. “Sono coinvolti interessi criminali a vari livelli – continua Schiesaro - del resto il responsabile non si trova quasi mai”. Infatti nel nostro ordinamento giuridico l’accertamento del responsabile del danno con sentenza passata in giudicato non esiste (ndr). Inoltre “spesso le bonifiche possono essere realizzate o semplicemente fatte figurare come interventi con un certo contenuto tecnico, mentre, in realtà, sono tutt’altro”. Diabolico. Sì. perché sbagliare è umano, perseverare è diabolico. E nel nostro paese abbiamo perseverato a lungo nell’attribuire sostanziale impunità al danno ambientale. Attualmente solo l’Avvocatura dello Stato di Venezia esercita azione civile per danno ambientale. Una realtà generata dalla vicenda processuale del petrolchimico di Portomarghera: danno ambientale stimato per 70mila miliardi delle vecchie lire e nessuna condanna. Non per colpa di giudici ossequiosi ma perché, ad esempio, non si può calcolare il valore dell’aria o di un terreno a meno che il terreno non sia produttivo. E poi perché è difficile controllare il percorso di inquinanti nel sottosuolo, in atmosfera o in mare. E poi il vizio di fondo: “le condotte illecite sono nella quasi totalità penalmente rilevanti – spiega ancora Schiesaro – nella quasi totalità dei casi tutti gli atti relativi all’accertamento di tali condotte sono coperti dal segreto delle indagini che dura due anni.” Peccato che il DL 152/2006 preveda un termine di decadenza di un anno e mezzo dal momento del fatto”. Quindi quando il pubblico ministero svela il contenuto delle indagini i termini sono spirati e le amministrazioni non hanno nemmeno l’opportunità di conoscere ciò che è oggetto d’indagine. E’ necessario avvalersi di esperti in grado di comprendere la complessità tecnica dei casi, di periti che non debbano interessarsi di centinaia di cause contemporaneamente e che chi assegna i casi ai periti comprenda che l’ammaccatura del parafango o i vicini molesti non sono sullo stesso piano di un disastro ambientale magari condito da mazzette, danni al DNA e omicidio colposo.

Sarebbe necessario un osservatore attento, quindi, capace di avere una visione globale del problema. Qualcuno in grado di andare oltre ciò che viene dichiarato e di mettere insieme tutti i tasselli del puzzle. Perché la posta in gioco è molto alta.



Sisma in Emilia: liquefazione delle sabbie
Tra le questioni sollevate in questi mesi dalla Rete no-Triv e dalle associazioni del basso Adriatico, infatti, c’è anche il timore che a breve dovremo fare i conti con il terremoto. Come quelli della scorsa primavera in Emilia Romagna dove la gente si è vista esplodere il pavimento sotto la pressione di fango sabbioso che ha riempito le case, i giardini, le campagne fuoriuscendo anche dai pozzi.

Le smentite a queste ipotesi non si sono fatte attendere ma autorevoli ricerche scientifiche da parte di specialisti del Congressional Research Center stanno lavorando alla dimostrazione delle conseguenze del fracking ovvero la ricerca di ‘gas non-convenzionale’. I risultati della ricerca toglieranno ogni dubbio in merito ad evidenze già osservate e verranno pubblicati entro il 2014.

La tecnica consiste nell’iniezione di fluidi misti a sostanze chimiche, a sabbia o altri agenti di sostegno che servono a mantenere le fratture aperte nel terreno allo scopo di stimolare la fuoriuscita di gas e petrolio. In sostanza i fluidi riescono a propagare una frattura in uno strato roccioso già trivellato e aumentare poi la quantità di idrocarburo estratto da un giacimento inaccessibile. Secondo il CRC, questo processo viene attualmente utilizzato negli Stati Uniti in più del 90% dei pozzi di petrolio e gas. “Ma il rapido e geograficamente esteso aumento del fracturing – dicono gli esperti del CRC - ha sollevato preoccupazioni per i suoi potenziali impatti sulla qualità delle acque sotterranee e dell’acqua potabile e ha portato alla richiesta di un maggiore controllo da parte dello Stato”.  Infatti il fluido di fratturazione e l’acqua rimasta nell’area in cui è avvenuta la frattura, possono inibire la produzione di petrolio e gas e per questo devono essere ripompate in superficie. Si genera così un ‘riflusso’ del fluido di frattura che torna in superficie insieme all’acqua che si incontra nelle faglie naturali del terreno generando la cosiddetta ‘acqua prodotta’. Secondo stime di settore rilevate nelle varie aree geografiche, il volume dell’acqua di riflusso può variare da una quantità che va dal circa 30% a più del 70% rispetto al volume del liquido di frattura originale. Un pozzo può essere fratturato più volte utilizzando fino a 6milioni di galloni di acqua. Considerando che un gallone equivale a 4 litri e mezzo, facciamo un po’ due conti.



Terremoto in Emilia: liquefazione delle sabbie dovuto a terreni saturi di acqua
Il ricorso all’uso della fratturazione idraulica - dice ancora il documento di presentazione della ricerca -  è in continuo aumento proporzionalmente al decremento dei giacimenti di petrolio e gas e alla crescita di richiesta di energia. Per questo le compagnie petrolifere si muovono in direzione delle formazioni non convenzionali di idrocarburi. La situazione appare preoccupante in quanto la fame di energia induce le compagnie petrolifere a lavorare anche in aree densamente popolate e il processo di fratturazione porta all’introduzione di fluidi chimici, metano ed altri contaminanti negli acquiferi, da cui si approvvigionano gli acquedotti".

Ufficialmente la produzione di gas non convenzionale in Italia non esiste. Ma sul sito di Independent Resources, compagnia inglese vocata all’estrazione di idrocarburi e geograficamente strutturata in Italia si legge: “IRG holds extensive (…)unconventional gas exploration interests covering the entire Ribolla shale gas basin in Italy, and the strategically-positioned Rivara gas storage project in the Po Valley, in addition to other emerging interests in CO(2) sequestration”. Cioè: La Independent Resources detiene interessi estensivi per l’esplorazione di gas non convenzionale che ricoprono l’intera area del bacino di gas di scisto di Ribolla e per il progetto di stoccaggio della zona strategica di Rivara, nella Pianura Padana. E come abbiamo visto, il gas non convenzionale è quello che viene recuperato attraverso il fracturing.

All’inizio del 2012 la IR affermava anche di essere sul punto di sviluppare il primo progetto di gas non convenzionale in Italia tra le località denominate Fiume Bruna e Casoni.

Mentre a Febbraio ottiene un Decreto Ministeriale per il Progetto Rivara da parte del Ministero dell’Ambiente e del Ministero dei beni e delle attività culturali che danno le autorizzazioni per la raccolta del gas a Rivara, appunto. “Questo Decreto – dicono da IR -  formalizza la recente decisione della Commissione VIA (valutazione impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente (…) che ha lo scopo di confermarne definitivamente (…) la sicurezza e la fattibilità”.

Quindi, come mai il Governo continua a dire che è tutto in regola? E soprattutto: come mai fa dichiarazioni che poi vengono smentite pubblicamente proprio da chi si occupa dei lavori?








Specchietti senza allodole.


Per convincere le comunità del fatto che ospitare interessi petrolchimici sia conveniente, vengono pubblicizzate le royalty. Le royalty consistono in una percentuale sulla produzione di olio e gas che il titolare della concessione (Eni-Petroceltic) corrisponde al proprietario delle risorse del sottosuolo (lo Stato). In Italia le foreste, le miniere, le cave e i giacimenti onshore e offshore fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato in base all’Articolo 826 del Codice Civile. Lo Stato non si impegna direttamente nello sfruttamento e nella ricerca  di queste risorse e affida le attività di ricerca e prelievo in concessione a società private. “In tal modo partecipa allo sfruttamento di queste risorse senza sostenere i costi e i rischi legati a questo genere di attività” spiega il sito di esperti petrolioegas.it. Messa così sembra che dobbiamo un favore alle compagnie petrolchimiche. Ma non è, forse, vero che lo Stato siamo noi? E non è, forse, vero che i rischi di queste attività esistono, sono irreversibili e ricadono principalmente su quei cittadini che vivono nelle zone in cui queste attività vengono svolte? Si, è così, altrimenti non si spiegherebbe come mai esistono le royalty, appunto. Sempre su petrolioegas.it leggiamo che “per le produzioni di olio e gas onshore è applicata un’aliquota del 7% mentre per coltivazioni a mare l’aliquota è del 7% per il gas e del 4% per l’olio. Tuttavia, dal 1° gennaio 2009 per le produzioni ottenute in terraferma l’aliquota è stata elevata dal 7% al 10%, destinando la maggiorazione del 3% al cosiddetto Fondo Idrocarburi (Legge 99/2009) per la riduzione del prezzo alla pompa dei carburanti per i cittadini residenti nelle Regioni interessate da estrazioni di idrocarburi liquidi e gassosi”. L’ennesimo contentino che dovrebbe ripagarci della nascita di figli nati con gravi malformazioni? O per la scomparsa del pesce dai nostri fondali? O per l’inquinamento della falda freatica? O per le famiglie decimate dal cancro? O forse per le decine di capodogli che si arenano sulle nostre spiagge e che si lasciano morire tra orribili lamenti?


Secondo i sindaci dell’area garganica le royalty proposte dal Governo non coprirebbero nemmeno i costi dell’Imu. Allora chi si dovrebbe sobbarcare le spese di smaltimento di un capodoglio? Chi ripagherebbe le famiglie dei pescatori che non trovano più pesce tra le maglie delle reti?

Negli anni 60 i cittadini delle Tremiti ricordano che la sera uscivano 18 ‘lampare’. Su ogni lampara lavoravano 10 marinai. In pratica tutta l’isola viveva di pesca. Poi è arrivata l’industrializzazione e l’Adriatico è diventato il corridoio preferenziale per rifornire di petrolio l’Europa. Sulla via del ritorno le navi-cisterna venivano lavate e lo sporco oleoso veniva riversato in mare. In poco tempo la diversità biologica dell’Adriatico è scomparsa. Niente più pesce significa niente lavoro per le decine di famiglie di pescatori. Anche specie protette come la foca monaca sono scomparse dall’arcipelago.

In seguito a questi fatti fu elaborata una legge e le navi cisterna, a suon di pesanti multe, smisero di imbrattare di catrame le acque limpide dell’Adriatico meridionale. Ma il pesce non è tornato. Fortunatamente la bellezza di quei luoghi ha permesso alla gente di continuare a vivere di turismo. Ma i tremitesi si chiedono se i turisti non faranno la fine del pesce.

Curioso che nel porsi queste domande le comunità adriatiche debbano pensare al Governo come al nemico da cui difendersi. Curioso e amaro per una regione, la Puglia, che è orgogliosamente in grado di esibire con fierezza i suoi successi in termini sociali e finanziari ottenuti in poco tempo con un’ottica autenticamente rivolta agli interessi della comunità e alla lotta alla criminalità.

Il ‘lungo braccio’ di Eni.

Lesioni colpose, disastro ambientale, condotta negligente, avvelenamento di sostanze utilizzate nella catena alimentare, danno ambientale, avvelenamento di acque e colture, comportamenti colposi fraudolenti e gravi e poi accuse di antitrust nel settore del gas naturale per il trasporto del gas dalla Russia, tangenti date in Nigeria, associazione a delinquere e corruzione in Iraq, senza contare la sospetta responsabilità per la nascita di bambini malformati a Gela. Non manca niente nel carnet del malaffare di Eni, compagnia multinazionale specializzata nella produzione di idrocarburi. Nel fornito blog della ricercatrice Maria Rita D’Orsogna vengono elencati ben 38 processi a livello nazionale e internazionale che coinvolgono Eni e la condannano al pagamento di diverse centinaia di milioni di euro.

Nello stesso blog un anonimo dice: “Io so solo che alcuni miei amici che lavorano per conto di ENI in impianti del Nord Africa mi hanno confidato più volte che i manometri laggiù sono tutti opportunamente taroccati, proprio per permettere la creazione di fondi neri, e chiunque lo segnala viene istantaneamente silurato dalla società. Questo sarebbe un fatto noto a quasi tutto il nostro personale laggiù, ma la paura del licenziamento da parte dell'azienda è tale che fa tenere a tutti le bocche cucite”.

L’Eni capita anche tra i leaks di Julian Assange che la definisce ‘la vera grande azienda corrotta italiana’.

Malgrado questi fatti nel marzo 2011 Petroceltic, società upstream con sede a Dublino, specializzata nell’esplorazione e produzione di gas e petrolio con interessi in Algeria, Italia e Kurdistan iracheno, ha siglato un accordo per il trasferimento delle attività operative della zona denominata Carisio ad ENI in cambio di dati sismici in 2D ed altri studi tecnici sulle aree di Carisio e Ronsecco in Pianura padana. Il trasferimento delle operazioni è stato poi approvato dal Ministero per lo sviluppo economico e quindi Eni è diventata operativa dal 1 aprile 2011.

Ma dopo pochi giorni la festa viene guastata dall’incidente del pozzo Macondo nel Golfo del Messico, dove il 20 aprile 2011 scoppia la piattaforma Deepwater Horizon che cola a picco dopo un rogo di due giorni, lasciando aperto il pozzo. Così per 106 giorni milioni di barili di petrolio sono stati sversati in mare e ancora galleggiano nell’oceano provocando un disastro ambientale dalle smisurate proporzioni.

Alla luce di questi avvenimenti il ministro Prestigiacomo ritenne di dover intervenire con un decreto, il 128/2010 allo scopo di modificare il Codice Ambientale. Il decreto vietava qualsiasi forma  offshore di E&P (Exploration and Production) collegata al petrolio entro 5 miglia nautiche dalla linea costiera e tutte le attività di offshore E&P entro 12 miglia nautiche per le aree marine o costiere protette.  Un provvedimento risibile se paragonato alle norme statunitensi. “In California, Florida e tutti gli stati ad Est ed Ovest della nazione vige il divieto di trivellare fino a 100 miglia da riva - 160 chilometri - per proteggere turismo e vita marina – ricorda la ricercatrice Maria Rita d’Orsogna - anche nei Grandi Laghi, che hanno una superficie una volta e mezza maggiore dell'Adriatico, vige il divieto assoluto di trivellare”.

Il DL 128/2010 è stato poi modificato con il DL 83/2012 (il Decreto Sviluppo) pubblicato il 26 giugno 2012 sulla Gazzetta Ufficiale. Dopo tale data il Ministero doveva ottenere una conversione formale da parte del Parlamento italiano entro 60 giorni, periodo entro il quale il Decreto può essere modificato.

Ma il DL 83/2012  è stato invece approvato il 3 agosto – dunque prima della scadenza - senza modifiche rispetto al testo emendato dalla Camera con 216 pareri favorevoli, 33 contrari e 4 astenuti diventando Legge 134/2012. Poi in tutta fretta, dopo 4 giorni, il Ministero ha concesso i permessi di prospezione che, in base alle restrizioni applicabili all’esplorazione offshore e alle attività produttive che la Legge impone, dovrebbero avvenire oltre le 12 miglia al largo della linea costiera italiana. Ma attenzione alle clausole, perché la legge recita: “le restrizioni non colpiscono le concessioni produttive che erano in corso di revisione o erano già state rilasciate al momento in cui il DL 128/2010 è andato in vigore né le successive modifiche o estensioni collegate a tali permessi”.  Significa che siccome Petroceltic aveva già da qualche anno affari in corso con il precedente governo riguardanti aree al di qua delle 12 miglia, i ripensamenti dell’ex Ministro Prestigiacomo non valgono.

Significa anche che, siccome la perforazione è una logica conseguenza delle prospezioni, quando il Ministro Clini ha dato il via alle prospezioni sapeva benissimo che prima o poi le trivelle  entreranno in azione – perché ‘estensione collegata’ alle concessioni produttive già rilasciate - e che il parere del Tar espresso in seguito al ricorso di Puglia e Molise sarà automaticamente annullato.

Lo conferma anche petrolioegas.it dove si legge che le prospezioni non sono fine a stesse. Infatti: “Il permesso di ricerca è richiesto e rilasciato al fine del rinvenimento di giacimenti di idrocarburi e della loro conseguente coltivazione in caso di scoperta. La coltivazione è quindi concessa al titolare del permesso che abbia rinvenuto un giacimento idoneo. Le attività di ricerca sono strettamente connesse a quelle di coltivazione: si ricerca con rischio al fine di scoprire nuovi giacimenti; non si eseguono delle ricerche senza la prospettiva di godere dei benefici con la coltivazione qualora un giacimento fosse rinvenuto”.

Il Decreto impone anche un incremento del 3% delle royalty pagabili dai produttori di petrolio e gas offshore. Secondo Passera i proventi di queste royalty addizionali – di cui si parlerà più avanti - consentiranno  al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dello sviluppo economico di sostenere il monitoraggio e l’applicazione della protezione dell’ambiente marino e la supervisione per la sicurezza ambientale e delle attività produttive costiere in Italia. Il Ministro intende muoversi con decisione in direzione degli idrocarburi in modo da aumentare la produttività dal 10 al 20%. Non si fa menzione al fatto che il resto dovremmo, comunque, importarlo e che, comunque, il petrolio di cui disponiamo nei fondali in questione sarebbe sufficiente a soddisfare il fabbisogno di soli 4 mesi. Mentre l’inquinamento derivante dalle sole prospezioni durerebbe per sempre, così come i danni alla salute e la fine della biodiversità dei nostri fondali. Allora qual è il senso di questa operazione?

In quest’ottica anche l’esca dei 25.000 posti di lavoro ‘stabili e addizionali’ che secondo il Ministro dello Sviluppo aumenterebbero il PIL di quasi mezzo punto percentuale sono un’illusione. Ed è dunque pericolosa la convinzione del Governo sulla necessità di adeguare velocemente la normativa di concessione e autorizzazione agli standard internazionali a fronte delle leggi italiane che presumono passaggi autorizzativi lunghissimi e sono molto più restrittive rispetto alle normative europee.

Ma in un clima di crisi finanziaria, ‘veloce’ e ‘facile’ diventa sorprendentemente la parola d’ordine anche nei casi dove il rischio è alto. E così, avverte il Decreto Sviluppo, “in molti Paesi d’Europa è in corso un ripensamento delle politiche nazionali sulle Rinnovabili – in qualche caso in maniera drastica”. Infatti, si rammenta, gli incentivi al fotovoltaico stanno subendo un crollo verticale. Attenzione, però, alla specificazione sul fotovoltaico e non sulle rinnovabili in genere. Al comma 4 dell'articolo 11 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, infatti, tra le ‘fonti energetiche rinnovabili’ è inserita anche l’energia nucleare prodotta sul territorio nazionale’. Una clausola non da poco per un popolo che, malgrado i tentativi di disinformazione, si è espresso due volte attraverso un referendum in maniera contraria rispetto a questa soluzione ma che è governata da chi dimostra arroganza bypassando con mezzi sleali una volontà popolare più volte espressa anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni regionali, provinciali e comunali, evidentemente alternativa.

Alternativa, come già detto, sostenibile e supportata dai dati  per la Regione Puglia. “Solo sul Gargano 27mila famiglie campano sul turismo senza contare  il commercio che ne deriva” dice Raffaele Vigilante della Rete no-Triv. Immaginiamo cosa possa voler dire estendere un modello così virtuoso a tutto il paese.

Conclusioni

Dunque: sicuro che il gioco valga la candela? Nel 2009 qualcosa ha indotto le istituzioni statunitensi  a chiedere ad Eni di ridurre la sua presenza in Iraq. Anche li gli interessi erano miliardari. Sta di fatto che Eni abbozza e l’amministratore delegato Scaroni scrive all’ambasciatore Thorne dicendo di comprendere le ragioni di quella richiesta e assicurandolo che abbandonerà  i propri interessi in quell’area ma spiegando di dover recuperare i tre miliardi di dollari investiti. Poi ci si è messa anche la primavera araba e dal 2011 la Libia ha smesso di rifornirci.

Può essere che sia un’altra storia ma è curioso che è più o meno in questi anni che l’avventura del petrochimico inizia a volteggiare sui nostri destini.

Alla fine è dimostrabile che i 25mila posti di lavoro promessi dal Governo siano zero assoluto a fronte dei 27 mila che si perderebbero solo sul Gargano, non più meta di turismo. E a chi andrebbero veramente quelle royalty che non coprirebbero neanche lontanamente l’esborso dovuto per i continui spiaggiamenti di cetacei né tantomeno la pulizia del mare e delle coste? E i figli nati male, i terremoti con le loro conseguenze: che prezzo hanno?.

Alla fine questa è una delle tante strane storie italiane piene di misteri, bugie, e scatole cinesi: perché non ci si spiega come mai i diritti vengano attribuiti a Compagnie straniere che poi delegano a Eni. Tanto, poi, se succede un incidente rimane tutto come prima. Si, perché abbiamo visto che lo Stato agendo contro Eni agisce contro se stesso. Quindi chi paga sono sempre i cittadini. Si, a ben vedere è una storia geniale, di quelle che rendono l’Italia così divertente agli occhi degli stranieri. Siamo noi, la vera grande mela.

Una storia che non ha né capo né coda. Se pensata da chi ha buon senso. Una storia che potrebbe essere raccontata da un reporter che scrive dall’Africa o da qualche posto del Sudamerica dove i diritti delle minoranze vengono pedissequamente e impunemente oltraggiati.

Che questo accada da noi è anche più grave. Perché noi siamo quelli civilizzati – così ci piace pensare di noi stessi - e poi perché noi non siamo minoranza. E abbiamo le istituzioni locali – di ogni colore, va detto – che rigettano queste misure.

E come controparte ci ritroviamo il Governo, quello fatto da chi giura in nome del popolo italiano, prima di sedersi su comodi scranni. Quello che scopriamo azionista di maggioranza di una multinazionale rea di crimini sparsi.

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