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martedì 27 novembre 2012

Italia: paradiso fiscale dei petrolieri.


Di Chiara Madaro

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Sapete che se apriste una srl con capitale sociale pari a 10.000€ sareste in grado di ricevere l’approvazione del Governo per l’esplorazione petrolifera?

E’ quello che è successo alla fortunata società San Leon, con sede in  un inanimato appartamento di uno scalcinato palazzo che si trova a Monteroni, paese della provincia di Lecce dalla cattiva fama, purtroppo.

La notizia è uscita nel 2010 in seguito ad un’interrogazione parlamentare promossa da Gabriele Cimadoro, IdV. La San Leon già nel 2008 presentò al Ministero dello sviluppo economico tre domande di ricerca in mare di idrocarburi al largo della Sicilia, in prossimità della Riserva marina delle isole Egadi per un’area totale di circa 1000Kmq. Sebbene le aree su cui insiste la richiesta di perforazione abbiano un’economia basata su pesca e turismo, il CIRM, Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie e il Comitato tecnico per gli idrocarburi e le geometrie hanno dato parere favorevole al progetto. “Dati gli elevati rischi connessi agli impianti off-shore, di cui si ha un tragico monito negli avvenimenti nel golfo del Messico – dice Cimadoro - appare agli interroganti irrisorio un capitale sociale di appena 10.000€ da parte della società concessionaria (…) risultando una società inattiva”. Obiezione legittima. Ciononostante la San Leon ha all’attivo 5 permessi in Italia di cui due on shore nella Pianura Padana e tre off shore al largo della Sicilia, appunto.

Appare, poi, singolare che questa piccola e povera società abbia avuto successo su un’area fortemente appetibile da altri petrolieri tra cui due importanti aziende statunitensi.

Ma ad oggi il problema è ancora in piedi e il 17 ottobre 2012  l’On. Cimadoro torna  a ricordare che la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha approvato una norma per la quale: “Le compagnie petrolifere devono essere ritenute responsabili dei costi e di tutti gli eventuali danni ambientali ed avere i mezzi per pagarli, altrimenti non potranno ricevere le licenze per trivellare nelle acque europee”. Un’inquietudine del tutto giustificata soprattutto se si pensa alle concessioni in sanatoria che il Ministro per lo sviluppo economico ha recentemente autorizzato rispetto a trivellazioni che nei nostri mari avranno luogo a meno di 5 miglia dalla costa permettendo sia la creazione di un rischio ambientale da parte di soggetti che non hanno i requisiti per trivellare sia una chiara infrazione delle disposizioni europee.

“Ma i petrolieri – si ricorda in Parlamento – (…)hanno già fatto sapere di essere pronti a estrarre tutto il nostro oro nero, investendo nell’arco dei prossimi quattro anni 12 miliardi di euro per nuovi impianti produttivi in tutta Italia. Un fatto preoccupante se si pensa che il settore pubblico/privato ha visto emergere numerosi casi di inquinamento delle aste da parte dei soggetti non aventi diritto, sia dal punto di vista patrimoniale, sia dal punto di vista tecnico, attraverso (…) un’alterazione se non la stessa partecipazione diretta delle cosche alle gare di concessione pubbliche”. D’altra parte anche secondo uno studio della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, le compagnie petrolifere non si fanno scrupolo di giocare con i delicati equilibri internazionali per ottenere condizioni commerciali più vantaggiose da parte dei governi ospiti.

Preoccupante perché da nord a sud le richieste di prospezione e trivellazione per gas e petrolio aumentano senza pari negli ultimi anni. Al 2012 in Italia sono presenti 91 permessi  in terraferma e 24 off shore. Il primato spetta all’Emilia Romagna con ben 39 permessi tutti on shore. Preoccupante perché, senza ombra di dubbio, queste attività comportano perdite di materiale petrolchimico in ogni parte della ‘filiera’: dalla raccolta alla raffinazione al trasporto. Preoccupante perché queste perdite hanno effetti deleteri sulla salute dei viventi e da questi danni non si torna indietro.

Lo dimostra uno studio condotto nel 2010 dai ricercatori Maria Rita D’Orsogna, e Thomas Chou presso il Dipartimento di Scienze Matematiche della California State University at Northridge, Los Angeles. La ricerca ricorda che in un Rapporto ufficiale delle Nazioni Unite viene fortemente raccomandato di evitare ogni tipo di contatto con H2S, idrogeno solforato, a causa dei gravi effetti tossici che derivano dall’esposizione a questa sostanza.

L’idrogeno solforato è, infatti, una componente degli idrocarburi paragonabile al cianuro ed esposizioni ad alte dosi di questa componente possono provocare anche morte istantanea. Ma anche a basse dosi non fa sconti. In particolare i risultati della ricerca evidenziano che fra gli effetti non letali, i danni sono di natura neurologica e polmonare. Fra i danni di natura polmonare i sintomi ricorrenti sono edema polmonare, rigurgiti di sangue, tosse, dolori al petto, difficoltà di respirazione. Ma ancor più preoccupanti sono i disturbi neurologici: declino intellettuale, mancanza di concentrazione, difetti della memoria e dell’apprendimento, elevati livelli di irritabilità, stati di depressione, confusione, perdita di appetito, mal di testa, scarsa memoria, svenimento, ansia, affaticamento.  Fatti ricordati al Governo in occasione di un’interrogazione al Senato presentata nel novembre 2011 dall’On. Poli Bortone che rammenta: ”In particolare è stato dimostrato che in condizioni di stress recede il livello di altruismo e di cooperazione tra gli individui e si registra un incremento delle condotte aggressive”.

Sintomi di disturbi irreversibili che entrano come un dato di fatto nella nostra società.

Negli Stati Uniti la ricerca indaga da tempo sui costi sociali di nuove generazioni nate con capacità intellettive limitate. Si tratta di realtà dilaganti e che interessano soprattutto le giovani generazioni nate e cresciute nell’era del petrolio, una sostanza che già ci sta presentando il conto. Proviamo anche noi nel nostro piccolo a pensare a quanti insegnanti di sostegno circolano nelle scuole oggi e quanti 15-20 anni fa. Molti di più. E sono anche pochi rispetto alle effettive esigenze. Casualità? La scienza non crede al caso.

Secondo D’Orsogna e Chou la possibilità di contaminazione non è una possibilità ma una certezza. “La presenza di zolfo – di cui il petrolio adriatico è ricco (ndr) – rende il greggio fortemente corrosivo e tende a danneggiare gli oleodotti” e quindi “tutte le operazioni di trattamento dei prodotti petroliferi, a qualsiasi livello, hanno la possibilità di emettere quantità più o meno abbondanti di idrogeno solforato sia sotto forma di disastri accidentali, sia sottoforma di continuo rilascio all’ambiente durante le fasi di estrazione, stoccaggio, lavorazione e trasporto del petrolio”. Questo studio dipinge un quadro completo di ciò che effettivamente succede al di là delle assicurazioni che arrivano dalle compagnie petrolifere: dalla raccolta degli idrocarburi con l’inquinamento della falda acquifera da cui ci approvvigioniamo per bere, lavarci e cucinare, alla necessaria lavorazione sul posto con la costruzione di grandi strutture dove il processo di bruciamento per l’idro-desulfurizzazione è visibile all’esterno sotto forma di fiamma perenne, al trasporto attraverso navi che usano un combustibile più economico di quello dei mezzi di locomozione di massa ma più inquinante ai frequenti casi di blowout, cioè di esplosione dei pozzi. Tutto questo rende atmosfera, acque e terreno dei luoghi in cui si raccoglie petrolio ben 300 volte più contaminate delle normali città. Come è successo a Trecate, in provincia di Novara, nel 1994 quando il cattivo funzionamento delle valvole di sicurezza di un impianto petrolchimico provocò un’esplosione contaminando un’area pari a 100Km quadrati. Ad oggi la zona non è coltivabile e chi vive nei paesi circostanti è esposto a livelli di H2N superiori alla norma.

Nella sola Lombardia oggi si registrano ben 17 pozzi attivi, 14 concessioni in avvio e 11 richieste in esame.

Si sa che il nostro petrolio sia di scarsa qualità in quanto non si trova allo stato puro ma contiene forti concentrazioni di zolfo e altri minerali e quindi il processo di estrazione e raffinazione è estremamente costoso. Tuttavia negli ultimi anni le richieste di raccolta di petrolio e gas aumentano in maniera esponenziale su tutto il territorio italiano. Perché? Il nostro paese rappresenta il paradiso per i petrolieri: un paradiso fiscale. Lo dice un Dossier del Wwf che dice: “(…)estrarre idrocarburi nel nostro Paese è vantaggioso solo perché esistono meccanismi che riducono a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio l’ambiente. Ad esempio, le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i primi 80 milioni di metri cubi in mare sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato. Ma non è finita qui. Le aliquote (royalties) sul prodotto estratto sono di gran lunga le più basse al mondo e sulle 59 società operanti in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed ENI/Mediterranea idrocarburi)”.

E dire che per convincere le popolazioni locali della convenienza di ospitare una centrale, le compagnie non parlano d’altro che di royalty. Difficile non pensare ad un inganno a favore di pochi. Un inganno ben esposto in Senato da Poli Bortone che, in relazione ad una serie di richieste off shore in un’area protetta al largo della costa pugliese dice: ”Sul suo sito ufficiale la Northern Petroleum afferma di avere come missione quella di acquisire siti esplorativi e produttivi a basso costo d'ingresso, allo scopo di aumentarne il valore per i propri azionisti”.

E parla anche del tentativo di raggirare l'art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991 secondo la quale non è possibile concedere prospezioni su superfici estese oltre i 750 Km quadrati. Un tentativo riuscito dato che il Ministero ha rilasciato una serie di permessi ricadenti nella stessa area per una superficie totale di oltre 6.000 Km quadrati. Lo rileva il TAR di Bari a proposito della Northern Petroleum che “ha illegittimamente scorporato il progetto in più lotti su aree di mare (…) adiacenti, così impedendo la doverosa valutazione unitaria di impatto ambientale. (…)l'obiettivo della normativa – afferma l’On. Poli Bortone - non può essere aggirato e dichiara l'illegittimità dei provvedimenti di VIA lì dove prevedono il rilascio di più permessi di ricerca alla medesima società per ambiti marini adiacenti, a fronte del divieto, stabilito (…) dalla legge”. Non può essere possibile tacere nemmeno il fatto che nei fondali dell’Adriatico meridionale giacciono circa 20 mila bombe chimiche. Si tratta in maggioranza di bombe all’iprite affondate nel 1943 insieme alla nave statunitense ‘John Harvey’ ma non mancano ordigni riconducibili alla guerra dei Balcani. Per non parlare delle navi - 25 registrate dai Lloyd’s di Londra, 40 secondo varie Procure. Navi affondate su cui grava il sospetto del traffico di rifiuti pericolosi. L’uso degli air gun provocherebbe un disastro. Intanto il 9 novembre 2012 a Trieste è stata convocata una conferenza internazionale delle regioni adriatiche allo scopo di valutare le potenzialità di valorizzazione energetica del mare ed eventualmente pianificarne l'attuazione operativa. Gli esiti dell’appuntamento costringeranno il Governo a rivedere i permessi già rilasciati e la normativa.

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