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Il rinvenimento dello statista Aldo Moro |
A
distanza di anni, decenni, la verità sta lentamente prendendo forma grazie alla
testimonianza di chi ha deciso di rompere il muro del silenzio, ponendo nuovi
interrogativi su uno dei momenti più violenti della storia recente del nostro paese. Sullo sfondo, l'ombra di Gladio, di uno Stato ombra, di personaggi che hanno deciso e organizzato l'interruzione violenta di un naturale percorso politico condannando il Paese a subire le conseguenze di una mancata sovranità popolare, di una democrazia legata e imbavagliata. Una vicenda, quella del rapimento e uccisione dello statista Aldo Moro, che trova ragione in una sorta di cospirazione internazionale, capace di allungare i propri tentacoli nel cuore più profondo dello Stato non disdegnando la complicità della mafia e l'uso di metodi terroristici.
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Il Giudice Ferdinando Imposimato |
Brigadiere
Giovanni Ladu:” Non ho fatto questo passo prima perché avevo avuto, insieme ad
altri militari che sanno le mie stesse cose, una specie di consegna del
silenzio e del segreto su quanto era avvenuto, e avevamo visto e sentito. (…)
ho ancora timore per i miei familiari, ma col passare degli anni ho preso
questa decisione. (…) avevamo un
gabbiotto nei pressi dello stabile, dentro c’erano degli attrezzi, un monitor
con il quale, tramite la tele camerina posta nella plafoniera del lampione
situato di fronte all’edificio al civico 8, controllavamo i movimenti nel la
casa-prigione. (…) era un punto di osservazione e base di appoggio per i
militari che dovevano intervenire per compiere l’irruzione nella casa-prigione,
tra cui non c’ero io. (…) venne attivata una telecamera attraverso la quale
vedevamo la facciata dell’appartamento di quello che capimmo essere la prigione
di Aldo Moro. (…) eravamo in 40. (…) Il generale che ci impartì gli ordini
disse che eravamo stati chiamati a svolgere servizi speciali. (…) Alla nostra
base operativa in via Montalcini ci portarono con un piccolo pulmino senza
scritte e senza targa militare. (…) Avremmo dovuto vigilare in particolare su
una casa in cui era tenuto un ostaggio, un uomo politico che era stato rapito.
L’ufficiale non ci disse che si trattava di Aldo Moro, che io non sapevo bene
chi fosse. Ma qualcuno di noi che aveva letto e sentito notizie sul suo
rapimento cominciò a farsi delle domande e a parlarne con altri (…).Dovevamo
fare perlustrazioni esterne in pattuglie di due militari per turno, raccogliere
i rifiuti dai bidoni situati all’esterno e all’interno di un cortile del
palazzo in cui c’erano l’osteggio e i suoi carcerieri. Li portavamo sigillati
alla caserma dei carabinieri. Abbiamo prelevato i sacchi di immondizia fini al
7 maggio, il giorno prima dell’ordine di lasciare il posto e tornare alla base
di partenza. (…) Il controllo dell’appartamento con l’ostaggio avveniva sia
mediante piccole telecamere sia direttamente”.
Esisteva
anche un piano di evacuazione degli inquilini che vivevano nel palazzo in
previsione di un blitz per liberare Moro progettato per il 7 maggio 1978.
“Il
giorno prima che noi andassimo via (l’8 maggio 1978) fu posto di notte un
cartello di divieto di sosta con rimozione forzata su via Montalcini (…)
comprendemmo che si stava preparando un piano per la liberazione
dell’eccellente ostaggio, mentre nelle
zone adiacenti fu montata una tenda da campo della Croce Rossa, non
molto grande. Fu montata nella notte tra i 7 e l’8 maggio, e cioè il giorno
prima della nostra smobilitazione. Quando ce ne andammo noi fu portata via
anche la tenda. (…) Alla vigilia dell’irruzione ci comunicarono che dovevamo
preparare i nostri bagagli perché dovevamo abbandonare la missione. (…) La
nostra impressione fu che Moro doveva morire. (…) Era arrivata, ci venne detto,
una telefonata dal Ministero dell’Interno che aveva imposto di non intervenire.
(…) Esistevano quei microfoni ad ampio raggio posti nell’appartamento superiore
al luogo di detenzione dell’onorevole ai quali furono collegati dei
registratori a nastro. Mi ricordo che queste due bobine le trovai io stesso
dentro uno dei due bidoni della spazzatura che noi svuotavamo e el consegnai
personalmente al referente dei carabinieri che era lì con noi. (…) Che fine
hanno fatto le due bobine che trovai e che consegnai come mi fu ordinato? Sono
state ascoltate? (…) Un capitano dell’esercito ad Avellino mi intimò:”Dimenticati
di quello che hai fatto in questi quindici giorni”.