Il suono dell'universo.

sabato 1 novembre 2014

Ambiente ed ecumenismo


Di Chiara Madaro

Come ci siamo arrivati? Come siamo arrivati al punto in cui anche un gesto naturale come l’allattamento, la prima forma di cura e nutrimento, si sia tramutata in una delle prime forme di contaminazione con cui i neonati vengono a contatto? Gas, petrolio, uso indiscriminato di pesticidi, monocolture ed altro ancora, hanno portato i territori in cui viviamo e la nostra salute ad un punto di non ritorno. Le istanze della scienza rimangono disattese nel denunciare come il crescente aumento di patologie che ci colpiscono in età sempre più giovane quali autismo, malformazioni genetiche anche gravi, danni al sistema endocrino (diabete, celiachia, obesità), neurologico e cognitivi (autismo, iperattività, Alzheimer,  Parkinson ecc.), cardiovascolare, tumori, infertilità, siano attribuibili ai cosiddetti ‘interferenti endocrini’, sostanze di sintesi o naturali contenute, appunto, negli idrocarburi e nelle tante sostanze e prodotti che ci semplificano la vita. Alcune tra queste sostanze sono state proibite ma continuiamo a respirarle e ingerirle a causa della loro persistenza nell’ambiente. Altre, ancora, mostrano, oggi, l’irreparabilità dei danni.

Killer silenziosi che usiamo quotidianamente e che saturano l’aria delle città più industrializzate provocando il fenomeno del bioaccumulo e contaminandoci. Come a Brindisi, dove un recente articolo pubblicato da ricercatori del CNR ha rilevato come l’esposizione delle madri ai contaminanti stia determinando un aumento delle malformazioni dei feti. Gli scienziati spiegano i risultati allarmanti del loro studio epidemiologico ricordando che Brindisi è una città altamente industrializzata interessata da attività produttive che riguardano il settore degli idrocarburi, farmaceutico, metallurgico ecc. Una situazione che aveva presentato il conto già alla fine degli anni 80, quando il Ministero dell’Ambiente aveva dichiarato la città e i comuni circostanti ad alto rischio di crisi ambientale con la Legge 349/1986/art.1 e successivamente inserita nel Programma nazionale di recupero ambientale con la Legge 426/98.

Noi, i nostri territori, le nostre economie, che oggi – finalmente - giovano di un mancato coinvolgimento nel vortice dell’industria pesante ed emergono, invece, nell’immaginario collettivo nazionale come ultima frontiera di una sostenibilità possibile, vengono insidiati da promesse mendaci e ingannevoli. Ingannevoli, perché sventolano soluzioni energetiche sorpassate basate sugli idrocarburi come il massimo della modernità possibile; ingannevoli perché associano al gas l’aggettivo ‘pulito’ offrendo al pubblico immagini rassicuranti; ingannevoli, perché raccontano una mancanza di convenienza nell’investire in forme democratiche di approvvigionamento energetico, ingannevoli, infine, perché parlano di benefici duraturi laddove di duraturo vi sarebbe solo l’impossibilità di utilizzare per scopi agricoli vaste estensioni di terreni contaminati e malattie.

In Puglia, già 30 anni fa, bastava passare dall’Autostrada per capire che a  Taranto non si respira un’aria salubre. Ma il caso è esploso nella sua tragicità solo oggi. La parabola industriale dei vantaggi è già nella sua fase discendente. Ma la città non potrà più contare sul turismo, sulla pesca o sull’agricoltura. Dovrà, invece, fare i conti con le spese sociali e sanitarie derivanti da un’economia insostenibile.

Gli economisti ambientali dell’Università di Bath Alistair Hunt e Julia Ferguson hanno realizzato una stima dei costi generati da un piccolo gruppo di malattie causate dagli interferenti endocrini: in Europa si spendono tra i 636 e i 637,1 miliardi di euro all’anno. Una stima, specificano, che non ha tenuto conto né delle spese attribuite alle famiglie né alle giornate di lavoro perse a causa di malattie contratte dal lavoratore o dai suoi familiari né, tantomeno, dello stato di disagio, miseria e paura generati dalla necessità di lasciare il lavoro per poter accudire i propri cari.

Appare, dunque, legittimo chiedersi fino a che punto sia il caso di lasciarsi sedurre dall’attuazione di grandi progetti che riproporrebbero nei nostri territori danni economici e sanitari già visti altrove. Come a Gela, come in Abruzzo, come nella Val d’Agri, stupenda fino a pochi anni fa e oggi incoltivabile, irrespirabile e dove il progresso causa malori e un aumento considerevole dei casi di tumore tra le comunità locali.

Un peccato che il grande associazionismo non sia mai intervenuto concretamente a sensibilizzare, a creare consapevolezza e alternative.

Ma l’inattività di chi può fare molto non deve essere una giustificazione alla rassegnazione. Dobbiamo essere consapevoli che, una volta innescati, da questi cambiamenti non si torna indietro. E agire di conseguenza, far sentire la propria voce: un dovere di madre, di padre, di figlio, di cittadino. Un dovere segnalato da ogni confessione religiosa.

E’ in quest’ottica che la Conferenza Episcopale Italiana, 9 anni fa, ha raccolto la proposta della Chiesa ortodossa e consacrato la giornata del 1 settembre (giorno del capodanno ortodosso) alla Salvaguardia del Creato, una giornata dedicata alla natura spirituale dei temi ambientali ma generata dal timore espresso già nell’89 dal Patriarca di Costantinopoli Dimitrios I in merito alle conseguenze del deterioramento dell’ambiente, opera di Dio che l’uomo si sta arrogando il diritto di sciupare.

Timori espressi con forza anche dal Papa Francesco nell’Enciclica Evangelii Gaudium che denuncia l’aumento di alcune patologie ed esprime la necessità di dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”, un’economia che uccide, che si basa sulla legge del più forte. “Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale”, dice Francesco. E continua: “In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta”.  Il mercato, il denaro, idolatrati come un moderno vitello d’oro da cui accettiamo passivamente la sua tirannia sulle nostre vite e i nostri destini mentre ci si fa beffe dell’etica, minaccia alla ‘manipolazione della persona’ che viene ‘addomesticata’ a sopportare forme di iniquità. Una soluzione temporanea in cui Francesco avverte, latente, un pericolo: “(…)quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé – dice il Papa - non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence  che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”.

Vengono alla mente le tante lotte che da nord a sud impegnano i cittadini nella strenua e continua difesa dei propri territori, della salute dei propri figli, di una sostenibilità delle politiche economiche e per questo trattati come criminali nel nome di una miope politica delle ‘grandi opere’. Politiche che, col favore di Banca Mondiale e Fondo Monetario, hanno provocato danni e instabilità in altri continenti – la splendida Terra da cui arriva il Papa continua a soffrirne - e presentate come la soluzione ai problemi del nostro Paese: dal traforo del Monte Grappa, il monte sacro per le comunità locali, al gasdotto Tap in Salento, dall’Alta Velocità ai Centri Oli, dai rigassificatori alla nave dei veleni di Gioia Tauro. Il paese viene trasformato in spazzatura, luogo di smistamento e passaggio di sostanze dannose tra le proteste inascoltate da chi dovrebbe proteggere gli interessi dei cittadini.

La fragilità dell’ambiente come causa di guerre e conflitto, dunque.

Proprio in questi giorni viviamo con ansia le sorti della guerra in Siria, una guerra causata dalla volontà di possesso di una risorsa importante per popoli che vivono in paesi in via di desertificazione: l’acqua. Una guerra per l’acqua, per il possesso del Tigri e dell’Eufrate utili alla realizzazione del grande ‘Progetto Anatolico’, una serie di dighe per la creazione di energia elettrica, nascosta dietro il conflitto religioso.

Da qui la necessità di un dialogo e un’apertura con i credenti delle religioni non cristiane “(…)nonostante i vari ostacoli e le difficoltà – dice Francesco - particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose”. Uno sforzo necessario per superare il tentativo di alcuni politici che “approfittano di questa confusione per giustificare azioni discriminatorie”.

Protagonista delle cronache, il fondamentalismo islamico, che, privato della sua dimensione mistica, emerge in questi anni nella sua veste aggressiva e selvaggiamente violenta. Ma anche l’Islam  possiede un’etica ecologista che mette in relazione la soluzione dei problemi ambientali con la rinascita della spiritualità e della fratellanza. La Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam (1990), ad esempio, punta molto su questi temi. L’Articolo 1 recita: “Tutti gli esseri umani formano un'unica famiglia i cui membri sono uniti dalla sottomissione a Dio e dalla discendenza da Adamo”. E prosegue: “E' proibito ricorrere ai mezzi che possono provocare il genocidio dell'umanità ed è vietato abbattere alberi, danneggiare colture o animali, nonché distruggere le costruzioni o le istallazioni civili del nemico bombardandoli, minandoli o con altri mezzi”. Molto diverso anche il concetto della stessa Jihad, interpretata come materiale atto di guerra e violenza dagli estremisti, significa, in realtà ‘massimo sforzo’. E’ lo sforzo spirituale, la lotta interiore che ogni credente deve intraprendere in direzione del cambiamento.

L’umanità come un’unica famiglia, quindi. Come nel buddismo, tra le filosofie religiose che maggiormente si sono spese sui temi della relazione tra uomo e ambiente.

 Una delle dottrine fondamentali nel buddismo è il principio di non-dualità tra vita e ambiente: ogni cosa, ogni fenomeno è connesso e interdipendente e fa parte di una ‘rete’ di energia sottile, l’energia fondamentale che sta alla base della vita. Per questo a piante, rocce, animali, esseri umani, deve essere attribuita pari dignità. Una natura sofferente è specchio di un’umanità sofferente. Ma per il buddismo un cambiamento in positivo dell’individuo dovrà inevitabilmente innescare metamorfosi positive nell’ambiente e nella società in un rapporto di causa-effetto. Molto francescano, poi, il concetto secondo il quale le nostre sofferenze sono generate da un pensiero dominato da collera, stupidità, avidità. Nella Proposta di pace 2014 il leader buddista della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda raccomanda alle Nazioni Unite di impegnarsi nella costruzione di ‘società resilienti’, capaci, cioè, di adattarsi alle sfide che l’ambiente ci sottopone, condividendo obiettivi comuni e sostenibili.

Quanto c’è di diverso da quello che le religioni animiste ci hanno sempre raccontato? I popoli indigeni della terra, primitivi per la nostra arroganza occidentale, ci hanno avvertito da sempre del fatto che nessuna tecnologia al mondo avrebbe potuto sfamarci o metterci al riparo da una natura arrivata allo squilibrio, alterata. Ma abbiamo preferito chiudere gli occhi davanti agli indizi. Ancora oggi non ci animiamo a rassegnarci alla necessità di invertire la tendenza.

Alcuni personaggi di origine indigena che hanno ricevuto una cultura tale da poter comunicare con la mentalità dell’occidente, hanno scelto di dedicare la propria vita a trasmettere un messaggio di pace e lotta per l’ambiente, affinchè si recuperi quel rapporto perduto tra uomo e natura attraverso una ritrovata spiritualità e consapevolezza. In Italia c’è Atucà, origini Guaranì, antica razza sudamericana, una delle prime contattate  dai bianchi, decimata da quelle ‘cose’ di cui parla il buddismo: avidità, supidità…

Razza decimata preferendo la morte alla sottomissione. Riusciremo, noi, a rifiutare la sottomissione all’agnello d’oro? All’effimero? Riusciremo a recuperare il rapporto perduto con la natura, quale che sia il nostro credo religioso? A proteggere i nostri figli dalla sofferenza? Ad invertire la tendenza?

L’autore Gregg Braden, carriera dedicata all’industria energetica e alla difesa e oggi divulgatore del ‘ponte’ esistente tra scienza e credenze afferma: “Esiste un momento, in qualunque crisi, nel quale si può scegliere di andare verso una trasformazione che, dal semplice atto di sopravvivere, può evolvere in sviluppo. Quel momento segna un punto di svolta”.

Dobbiamo prendere coscienza del fatto che possiamo e dobbiamo invertire la tendenza attraverso uno sforzo di attenzione e azione. Dobbiamo sapere cosa succede nei nostri territori e opporci, non delegare, non permettere che il nostro fondamentale diritto alla salute, ad una vita degna di essere vissuta, alla dignità, venga calpestato dall’arroganza di pochi, capaci di vedere il guadagno immediato e non i gravi costi che ricadrebbero sui nostri figli, sui nostri genitori, su noi stessi.

Siamo al nodo, a quello che la scienza chiama il ‘punto critico’, il ‘punto di svolta’, il momento in cui anche un piccolo cambiamento può determinare IL cambiamento. L’aumento verticale delle patologie che affliggono l’umanità e gli eventi estremi ci stanno mettendo davanti allo specchio. E’ il momento di fare una scelta: rimanere passivi e continuare a farsi sopraffare dagli eventi o interessarsi, farsi un’opinione e creare reti di cittadini, comunità resilienti, raccogliere l’invito che i capi religiosi della Terra ci stanno rivolgendo?