Di Chiara Madaro
Come ci siamo
arrivati? Come siamo arrivati al punto in cui anche un gesto naturale come
l’allattamento, la prima forma di cura e nutrimento, si sia tramutata in una
delle prime forme di contaminazione con cui i neonati vengono a contatto? Gas,
petrolio, uso indiscriminato di pesticidi, monocolture ed altro ancora, hanno
portato i territori in cui viviamo e la nostra salute ad un punto di non
ritorno. Le istanze della scienza rimangono disattese nel denunciare come il
crescente aumento di patologie che ci colpiscono in età sempre più giovane quali
autismo, malformazioni genetiche anche gravi, danni al sistema endocrino
(diabete, celiachia, obesità), neurologico e cognitivi (autismo, iperattività, Alzheimer,
Parkinson ecc.), cardiovascolare, tumori,
infertilità, siano attribuibili ai cosiddetti ‘interferenti endocrini’,
sostanze di sintesi o naturali contenute, appunto, negli idrocarburi e nelle
tante sostanze e prodotti che ci semplificano la vita. Alcune tra queste sostanze
sono state proibite ma continuiamo a respirarle e ingerirle a causa della loro
persistenza nell’ambiente. Altre, ancora, mostrano, oggi, l’irreparabilità dei
danni.
Killer silenziosi
che usiamo quotidianamente e che saturano l’aria delle città più industrializzate
provocando il fenomeno del bioaccumulo e contaminandoci. Come a Brindisi, dove
un recente articolo pubblicato da ricercatori del CNR ha rilevato come
l’esposizione delle madri ai contaminanti stia determinando un aumento delle
malformazioni dei feti. Gli scienziati spiegano i risultati allarmanti del loro
studio epidemiologico ricordando che Brindisi è una città altamente
industrializzata interessata da attività produttive che riguardano il settore
degli idrocarburi, farmaceutico, metallurgico ecc. Una situazione che aveva
presentato il conto già alla fine degli anni 80, quando il Ministero dell’Ambiente
aveva dichiarato la città e i comuni circostanti ad alto rischio di crisi
ambientale con la Legge 349/1986/art.1 e successivamente inserita nel
Programma nazionale di recupero ambientale con la Legge 426/98.
Noi, i nostri
territori, le nostre economie, che oggi – finalmente - giovano di un mancato
coinvolgimento nel vortice dell’industria pesante ed emergono, invece, nell’immaginario
collettivo nazionale come ultima frontiera di una sostenibilità possibile,
vengono insidiati da promesse mendaci e ingannevoli. Ingannevoli, perché
sventolano soluzioni energetiche sorpassate basate sugli idrocarburi come il massimo
della modernità possibile; ingannevoli perché associano al gas l’aggettivo
‘pulito’ offrendo al pubblico immagini rassicuranti; ingannevoli, perché
raccontano una mancanza di convenienza nell’investire in forme democratiche di
approvvigionamento energetico, ingannevoli, infine, perché parlano di benefici
duraturi laddove di duraturo vi sarebbe solo l’impossibilità di utilizzare per
scopi agricoli vaste estensioni di terreni contaminati e malattie.
In Puglia, già 30
anni fa, bastava passare dall’Autostrada per capire che a Taranto non si respira un’aria salubre. Ma il
caso è esploso nella sua tragicità solo oggi. La parabola industriale dei
vantaggi è già nella sua fase discendente. Ma la città non potrà più contare
sul turismo, sulla pesca o sull’agricoltura. Dovrà, invece, fare i conti con le
spese sociali e sanitarie derivanti da un’economia insostenibile.
Gli economisti
ambientali dell’Università di Bath Alistair Hunt e Julia Ferguson hanno
realizzato una stima dei costi generati da un piccolo gruppo di malattie
causate dagli interferenti endocrini: in Europa si spendono tra i 636 e i 637,1
miliardi di euro all’anno. Una stima, specificano, che non ha tenuto conto né
delle spese attribuite alle famiglie né alle giornate di lavoro perse a causa
di malattie contratte dal lavoratore o dai suoi familiari né, tantomeno, dello
stato di disagio, miseria e paura generati dalla necessità di lasciare il
lavoro per poter accudire i propri cari.
Appare, dunque,
legittimo chiedersi fino a che punto sia il caso di lasciarsi sedurre
dall’attuazione di grandi progetti che riproporrebbero nei nostri territori danni
economici e sanitari già visti altrove. Come a Gela, come in Abruzzo, come
nella Val d’Agri, stupenda fino a pochi anni fa e oggi incoltivabile,
irrespirabile e dove il progresso causa malori e un aumento considerevole dei
casi di tumore tra le comunità locali.
Un peccato che il
grande associazionismo non sia mai intervenuto concretamente a sensibilizzare,
a creare consapevolezza e alternative.
Ma l’inattività di
chi può fare molto non deve essere una giustificazione alla rassegnazione. Dobbiamo
essere consapevoli che, una volta innescati, da questi cambiamenti non si torna
indietro. E agire di conseguenza, far sentire la propria voce: un dovere di
madre, di padre, di figlio, di cittadino. Un dovere segnalato da ogni
confessione religiosa.
E’ in quest’ottica
che la Conferenza Episcopale Italiana, 9 anni fa, ha raccolto la proposta della
Chiesa ortodossa e consacrato la giornata del 1 settembre (giorno del capodanno
ortodosso) alla Salvaguardia del Creato, una giornata dedicata alla natura
spirituale dei temi ambientali ma generata dal timore espresso già nell’89 dal
Patriarca di Costantinopoli Dimitrios I in merito alle conseguenze del
deterioramento dell’ambiente, opera di Dio che l’uomo si sta arrogando il
diritto di sciupare.
Timori espressi
con forza anche dal Papa Francesco nell’Enciclica Evangelii Gaudium che
denuncia l’aumento di alcune patologie ed esprime la necessità di dire “no a un’economia dell’esclusione e
della inequità”, un’economia che uccide, che si basa sulla legge del più forte.
“Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale”, dice Francesco.
E continua: “In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di
accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane
indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola
assoluta”. Il mercato, il denaro,
idolatrati come un moderno vitello d’oro da cui accettiamo passivamente la sua
tirannia sulle nostre vite e i nostri destini mentre ci si fa beffe dell’etica,
minaccia alla ‘manipolazione della persona’ che viene ‘addomesticata’ a
sopportare forme di iniquità. Una soluzione temporanea in cui Francesco avverte,
latente, un pericolo: “(…)quando la società – locale, nazionale o mondiale –
abbandona nella periferia una parte di sé – dice il Papa - non vi saranno
programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la
tranquillità”.
Vengono alla mente le tante lotte che da nord a sud impegnano i
cittadini nella strenua e continua difesa dei propri territori, della salute
dei propri figli, di una sostenibilità delle politiche economiche e per questo
trattati come criminali nel nome di una miope politica delle ‘grandi opere’.
Politiche che, col favore di Banca Mondiale e Fondo Monetario, hanno provocato
danni e instabilità in altri continenti – la splendida Terra da cui arriva il
Papa continua a soffrirne - e presentate come la soluzione ai problemi del nostro
Paese: dal traforo del Monte Grappa, il monte sacro per le comunità locali, al
gasdotto Tap in Salento, dall’Alta Velocità ai Centri Oli, dai rigassificatori
alla nave dei veleni di Gioia Tauro. Il paese viene trasformato in spazzatura,
luogo di smistamento e passaggio di sostanze dannose tra le proteste
inascoltate da chi dovrebbe proteggere gli interessi dei cittadini.
La fragilità dell’ambiente come causa di guerre e conflitto,
dunque.
Proprio in questi giorni viviamo con ansia le sorti della guerra
in Siria, una guerra causata dalla volontà di possesso di una risorsa
importante per popoli che vivono in paesi in via di desertificazione: l’acqua.
Una guerra per l’acqua, per il possesso del Tigri e dell’Eufrate utili alla
realizzazione del grande ‘Progetto Anatolico’, una serie di dighe per la
creazione di energia elettrica, nascosta dietro il conflitto religioso.
Da qui la necessità di un dialogo e un’apertura con i credenti
delle religioni non cristiane “(…)nonostante i vari ostacoli e le difficoltà –
dice Francesco - particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo
dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e
pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose”.
Uno sforzo necessario per superare il tentativo di alcuni politici che
“approfittano di questa confusione per giustificare azioni discriminatorie”.
Protagonista delle cronache, il fondamentalismo islamico, che,
privato della sua dimensione mistica, emerge in questi anni nella sua veste
aggressiva e selvaggiamente violenta. Ma anche l’Islam possiede un’etica ecologista che mette in
relazione la soluzione dei problemi ambientali con la rinascita della spiritualità
e della fratellanza. La Dichiarazione del
Cairo sui diritti umani nell'Islam (1990), ad esempio, punta molto su questi
temi. L’Articolo
1 recita: “Tutti gli esseri umani formano un'unica famiglia i cui membri sono
uniti dalla sottomissione a Dio e dalla discendenza da Adamo”. E prosegue: “E'
proibito ricorrere ai mezzi che possono provocare il genocidio dell'umanità ed
è vietato abbattere alberi, danneggiare colture o animali, nonché distruggere
le costruzioni o le istallazioni civili del nemico bombardandoli, minandoli o
con altri mezzi”. Molto diverso anche il concetto della stessa Jihad, interpretata
come materiale atto di guerra e violenza dagli estremisti, significa, in realtà
‘massimo sforzo’. E’ lo sforzo spirituale, la lotta interiore che ogni credente
deve intraprendere in direzione del cambiamento.
L’umanità come un’unica
famiglia, quindi. Come nel buddismo, tra le filosofie religiose che
maggiormente si sono spese sui temi della relazione tra uomo e ambiente.
Una delle dottrine fondamentali nel buddismo è
il principio di non-dualità tra vita e ambiente: ogni cosa, ogni fenomeno è
connesso e interdipendente e fa parte di una ‘rete’ di energia sottile,
l’energia fondamentale che sta alla base della vita. Per questo a piante,
rocce, animali, esseri umani, deve essere attribuita pari dignità. Una natura
sofferente è specchio di un’umanità sofferente. Ma per il buddismo un
cambiamento in positivo dell’individuo dovrà inevitabilmente innescare
metamorfosi positive nell’ambiente e nella società in un rapporto di
causa-effetto. Molto francescano, poi, il concetto secondo il quale le nostre
sofferenze sono generate da un pensiero dominato da collera, stupidità,
avidità. Nella Proposta di pace 2014 il leader buddista della Soka Gakkai,
Daisaku Ikeda raccomanda alle Nazioni Unite di impegnarsi nella costruzione di
‘società resilienti’, capaci, cioè, di adattarsi alle sfide che l’ambiente ci
sottopone, condividendo obiettivi comuni e sostenibili.
Quanto c’è di diverso da
quello che le religioni animiste ci hanno sempre raccontato? I popoli indigeni
della terra, primitivi per la nostra arroganza occidentale, ci hanno avvertito
da sempre del fatto che nessuna tecnologia al mondo avrebbe potuto sfamarci o
metterci al riparo da una natura arrivata allo squilibrio, alterata. Ma abbiamo
preferito chiudere gli occhi davanti agli indizi. Ancora oggi non ci animiamo a
rassegnarci alla necessità di invertire la tendenza.
Alcuni personaggi di origine
indigena che hanno ricevuto una cultura tale da poter comunicare con la
mentalità dell’occidente, hanno scelto di dedicare la propria vita a trasmettere
un messaggio di pace e lotta per l’ambiente, affinchè si recuperi quel rapporto
perduto tra uomo e natura attraverso una ritrovata spiritualità e
consapevolezza. In Italia c’è Atucà, origini Guaranì, antica razza
sudamericana, una delle prime contattate
dai bianchi, decimata da quelle ‘cose’ di cui parla il buddismo:
avidità, supidità…
Razza decimata preferendo la
morte alla sottomissione. Riusciremo, noi, a rifiutare la sottomissione
all’agnello d’oro? All’effimero? Riusciremo a recuperare il rapporto perduto
con la natura, quale che sia il nostro credo religioso? A proteggere i nostri
figli dalla sofferenza? Ad invertire la tendenza?
L’autore Gregg Braden,
carriera dedicata all’industria energetica e alla difesa e oggi divulgatore del
‘ponte’ esistente tra scienza e credenze afferma: “Esiste un momento, in
qualunque crisi, nel quale si può scegliere di andare verso una trasformazione
che, dal semplice atto di sopravvivere, può evolvere in sviluppo. Quel momento
segna un punto di svolta”.
Dobbiamo prendere coscienza
del fatto che possiamo e dobbiamo invertire la tendenza attraverso uno sforzo
di attenzione e azione. Dobbiamo sapere cosa succede nei nostri territori e
opporci, non delegare, non permettere che il nostro fondamentale diritto alla
salute, ad una vita degna di essere vissuta, alla dignità, venga calpestato
dall’arroganza di pochi, capaci di vedere il guadagno immediato e non i gravi
costi che ricadrebbero sui nostri figli, sui nostri genitori, su noi stessi.
Siamo al nodo, a quello che la
scienza chiama il ‘punto critico’, il ‘punto di svolta’, il momento in cui
anche un piccolo cambiamento può determinare IL cambiamento. L’aumento
verticale delle patologie che affliggono l’umanità e gli eventi estremi ci
stanno mettendo davanti allo specchio. E’ il momento di fare una scelta:
rimanere passivi e continuare a farsi sopraffare dagli eventi o interessarsi,
farsi un’opinione e creare reti di cittadini, comunità resilienti, raccogliere
l’invito che i capi religiosi della Terra ci stanno rivolgendo?