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martedì 11 febbraio 2014

Petrolio in Adriatico: catrame pelagico a Spiaggiabella. Colpa degli air gun?


di Chiara Madaro
http://www.trnews.it/2013/12/29/cumuli-di-catrame-spiaggiabella-telespetatore-lancia-lallarme/12371384/
Depositi di catrame a Spiaggiabella
Torna sulle spiagge del Basso Adriatico il fenomeno della presenza di catrame pelagico: non si verificava dagli anni ’80. In quel periodo le petroliere che portavano il greggio dai paesi africani al nord Europa attraverso il corridoio marino che separa l’Italia dall’Est, avevano la cattiva abitudine di lavare le stive al loro passaggio. In breve molte specie marine scomparvero da quella lingua di mare riducendo drasticamente il pescato e con esso la capacità economica di  intere comunità che basavano la loro sussistenza sulla pesca e sul mare. Una legge, il controllo costante della capitaneria di porto e le multe salate, interruppero quel pericoloso malvezzo.

Il catrame si depositò, comunque, sul fondale. Secondo uno studio del 2005 pubblicato da Unione petrolifera su ‘Traffico petrolifero e sostenibilità ambientale’, “il Mediterraneo ha una densità di catrame pelagico sui fondali pari a 38 milligrammi per metro quadro, seguito a distanza dal mar dei Sargassi con 10 mmg e dal mar del Giappone con 3,8 mmg”.

Queste ed altre considerazioni tra le quali gli inquinanti sversati in un mare sostanzialmente chiuso dalle attività esplorative, hanno indotto il Sen. Latorre ad elaborare un disegno di Legge comunicato alla Presidenza del Consiglio il 23 Novembre 2011 su ‘Divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi nelle acque del mare Adriatico prospiciente la regione Puglia’.


http://www.trnews.it/2013/12/29/cumuli-di-catrame-spiaggiabella-telespetatore-lancia-lallarme/12371384/
Particolare dei depositi di catrame a Spiaggiabella
Ma oggi le immagini ci mostrano uno sgradito e abbondante ritorno. Saranno le petroliere che fanno ricerche al largo delle coste salentine? E se si il fenomeno è dovuto ancora a lavaggio stive o, forse, alle tecniche esplorative basate sull’utilizzo di air gun?

Nel corso di un’interrogazione al Senato datata 11.11.2011 presentata da Adriana Poli Bortone e già pubblicata su questo blog, si riporta uno studio dell’Ingegnere ambientale Giuseppe de Leonibus secondo il quale “(…)gli air gun si basano su fenomeni di riflessione e rifrazione delle onde elastiche generate da una sorgente artificiale, la cui velocità di propagazione dipende dal tipo di roccia, ed è variabile tra 1.500 e 7.000 metri al secondo (tra 5.400 e 25.200 chilometri orari) e (…) tale metodica di ricerca è ufficialmente annoverata tra le forme riconosciute di inquinamento dalla proposta di direttiva n. 2006/16976 recante gli indirizzi della strategia comunitaria per la difesa del mare”. Inoltre “il suono viaggia nell'acqua circa quattro volte più in fretta che nell'aria (la velocità di propagazione del suono in aria è di 343 metri al secondo, in acqua di circa 1.483 metri al secondo), per cui le onde hanno la potenzialità di diffondersi su raggi molto elevati, anche di 100 chilometri e a ridosso dell'air gun si possono misurare picchi di pressione dell'ordine di 230 dB (a mero paragone, un'esplosione nucleare in mare ha un valore di 300-310 decibel)”. Poli Bortone ricorda ancora gli studi del Norwegian institute of marine research i quali hanno messo in evidenza una diminuzione delle catture di pescato fino al 50 per cento in un'area distante fino a 2.000 metri dalla sorgente durante l'utilizzo di air gun”.


http://www.olambientalista.it/sul-sito-del-ministero-dellambiente-gli-atti-della-transunion-petroleum/
Esempio di ricerca sismica con air gun
Ma non è tutto: agli effetti degli air gun vanno sommati quelli dovuti alla presenza, sui fondali del basso Adriatico, di 20.000 bombe chimiche (come risulta da un'interrogazione parlamentare al Ministro dell'ambiente del 22 settembre 2004 del senatore Franco Danieli).  Dati confermati dal Ministro pro tempore il quale ha confermato, nella sua risposta del 24 novembre 2005, che l'ICRAM, l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, ha rilevato la mappa dei siti di rilascio bombe nel Basso Adriatico dove si ritiene siano presenti almeno 20.000 bombe chimiche, delle quali circa 15.000 tutte all'iprite, si pensa siano parte del carico della nave statunitense "John Harvey", affondata nell'Adriatico nel 1943; il resto delle bombe sono il frutto della guerra nei Balcani, durante le quali furono individuate alcune aree marine per lo sganciamento dagli aerei di ordigni inesplosi. Secondo il senatore Danieli nei nostri fondali ci sono bombe all'iprite, al fosgene, disfogene, adamsite, acido cianidrico, bombe a grappolo del tipo blu27, proiettili all'uranio impoverito senza contare che il basso Adriatico è stato utilizzato fino agli anni '70 per lo smaltimento di munizionamento militare obsoleto e vi sono stati affondati residuati bellici provenienti dalla bonifica dei porti pugliesi e da depositi e stabilimenti di produzione, assemblaggio e sconfezionamento di ordigni. Secondo l’interrogante, andrebbe anche sottolineato come tali ordigni siano dispersi in un'area piuttosto ampia, che si estende dai fondali delle aree portuali fino a tratti di mare a diversa distanza dalla riva, anche per la pratica degli operatori di riaffondare in ambito portuale i residui bellici accidentalmente salpati.

Secondo l’Art.11 della Legge quadro sulle aree protette datata 6 dicembre 1991 n. 394, la perforazione o qualsiasi altra forma di ricerca riconosciuta come inquinante dovrebbe essere impraticabile. La Legge vieta, infatti, l’apertura e il rilascio di cave, miniere e discariche nonché l’asportazione di minerali nelle zone interessate tra cui, naturalmente, gli idrocarburi a causa dell’alto potere contaminante. Nel corso dell’’interrogazione, Poli Bortone rammenta i risultati scientifici sull’inquinamento marino di uno studio condotto dal gruppo Gesamp, un consorzio di esperti, creato e gestito in collaborazione con l'Unesco, la Fao, le Nazioni Unite e l'Organizzazione mondiale della sanità il quale stima che un tipico pozzo esplorativo scarichi fra le 30 e le 120 tonnellate di sostanze tossiche durante l'arco della sua breve vita, intenzionalmente o accidentalmente.

Dunque: in questi giorni le immagini riportate e diffuse da lettori responsabili mostrano lo spiaggiamento di grosse quantità di catrame che è visibile. Questo è un fatto da cui discendono una serie di interrogativi: da dove arriva quel catrame? Come è arrivato? Lavaggio stive o air gun? Considerando che la Legge 394/1991 vieta la ricerca in aree protette e che secondo vari studi i sedimenti delle piattaforme possono subentrare nella catena alimentare anche per un raggio di 10 chilometri dal punto di emissione, qualora si verificasse l’uso di air gun, sarebbe finalmente possibile interrompere pratiche palesemente illegali oltreché illogiche se pensate nell’ottica del bene economico e sanitario di una regione intera? Arpa avvierà indagini per scoprire se insieme al visibile catrame siano entrati nella catena alimentare e non solo anche iprite, acidi, uranio ecc?

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