Il suono dell'universo.

sabato 29 agosto 2015

Guaranì in città

di Chiara Madaro

Il Cacique Cirilo
 Il Cacique José Cirilo, di etnia Guaranì, è capo dell’Aldeia Anhetengua di Porto Alegre, nella regione del Rio Grande do Sul, Brasile.
 “Sono diventato capo a 14 anni. Nella nostra tradizione il figlio minore eredita il ruolo e le responsabilità del padre. Sono stato educato fin da bambino a comportarmi come un capo Cacique, a prendere decisioni. A 19 anni ho iniziato una lunga lotta per ottenere il territorio che oggi ci appartiene – dice José Cirilo, oggi quarantenne – e mi sono ammalato. Il contatto con la società e le regole dei bianchi mi ha fatto ammalare. Sono guarito grazie a mia madre che è la curandera e il capo spirituale della tribù”.
Nel Municipio di Porto Alegre vivono stabilmente 7 gruppi indigeni appartenenti a tre diverse etnie. Mbyá-Guarani, Kaingang e Charrua, ciascuna delle quali ha lingua, religione, organizzazione sociale, differenti. Nella geografia della città trovano collocazione 7 raggruppamenti Kaingang e nuclei familiari che abitano i “morros graníticos” (São Pedro, Santana, Glória do Osso), 3 raggruppamenti Mbyá-Guarani nelle terre pianeggianti e alte  dei quartieri Lomba do Pinheiro, Lami e Cantagalo e 1 raggruppamento Charrua nel quartiere Lomba do Pinheiro. Una ricchezza culturale sconosciuta e disconosciuta  dai porto-alegrensi.
Approssimativamente si calcola che nello Stato del Rio Grande do Sul vivano 350 famiglie e 1600 individui (Soares e Trindade, 2008) che occupano 90 mila ettari a fronte dei 90 mila milioni di ettari che appartengono allo Stato. La scarsità di terre demarcate influenza negativamente la riproduzione culturale di questi popoli e l’impossibilità di ottenere accesso alle risorse naturali. 













I gruppi tribali e indigeni che vivono nelle periferie delle città hanno grossi problemi di sussistenza e di conservazione della loro lingua e tradizione. “Per conservare la cultura del popolo – dice il Cacique Cirilo – serve la terra”. Ma il suo popolo vive in un territorio abitato da bianchi, la riserva di 9 ettari ha una pianta ‘a macchia di leopardo’. La contaminazione è la naturale conseguenza. Oggi il Cacique sta iniziando una nuova trattativa con il Municipio di Porto Alegre per ottenere un Morro, una collina adiacente all’aldeia. Si tratta di altri 10 ettari di terreno, circa, su cui il comune intende realizzare un parco. “Per il nostro popolo sarebbe utile ottenere quella terra. La famiglia sta crescendo”.
La situazione dei popoli indigeni in gran parte del Sudamerica è strettamente legata alla terra. Il popolo di Cirilo, ad esempio, era originario dell’Argentina. “Ai tempi della presa di Itaipù - racconta l’antropologa Mariana de A. Soares, responsabile per i gruppi indigeni di Porto Alegre – dove poi fu costruita la diga, i popoli che vivevano nella foresta, intorno alla cascata, furono cacciati. La famiglia di Cirilo fuggì e si divise in cerca di nuove terre dove poter vivere. All’epoca era molto giovane e diventò così capo del gruppo che, oggi, governa’.
Lontani dalla pittoresca immagine che in Europa arriva sullo stile di vita e l’ambiente naturale in cui abitano i popoli indigeni e tribali, i gruppi che si trovano in prossimità delle città vivono il problema della povertà. In mancanza di terre in cui scorrano corsi d’acqua ricchi di pesce, di foreste abitate da animali da cacciare e frutti da raccogliere, questi popoli devono comprare gran parte di quello che consumano per vivere. Come?
Rosani Ries mostra le fasi della realizzazione del progetto 
Rosani Ries è responsabile della piccola scuola situata nell’aldeia, dove i bambini della comunità che lo desiderano, possono ricevere un’educazione e imparare sia il portoghese che il guaranì da maestri guaranì. Un modo per conservare la propria cultura ma anche per offrire strumenti alle nuove generazioni che saranno capaci di confrontarsi con la società dominante e difendere i propri diritti.
“Ho pensato ad un progetto per il recupero di antichi saperi che, ormai, si vanno perdendo, come l’artigianato della ceramica – dice la Dott.ssa Ries – che potrà essere venduta ai turisti interessati. Sarà di aiuto nei rigidi mesi invernali in cui è più difficile per loro procurarsi del cibo”.
Le prime ceramiche realizzate nell'aldeia












Ma il progetto avrà ricadute positive anche in estate. Nella cultura indigena i prodotti della terra non si possono vendere: “La Terra è sacra – spiega il Cacique - non si può vendere una cosa sacra”. E’ per questo che i popoli indigeni producono solo lo stretto indispensabile e mangiano solo quando hanno fame.



Una delle classi della scuola dell'Aldeia Anhetengua. Il maestro insegna la scrittura Guaranì
Uno sforzo che merita di essere promosso anche nelle altre realtà indigene di Porto Alegre che versano in condizioni di estremo degrado. Invece, esiste un processo di smantellamento del Consiglio Indigeno, CEPI, Conselho Estadual dos Povos Indígenas, organo indigeno e statale allo stesso tempo, che raduna i capi dei vari gruppi indigeni del Municipio e dei rappresentanti che, nei vari uffici pubblici, si occupano dei popoli indigeni e tribali. Un progetto che rientra nei diritti costituzionali riservati alle minoranze indigene e tribali, oggi in pericolo di estinzione.

mercoledì 19 agosto 2015

Ciencia digna en tiempos indignos

Cómo se construye la ciencia digna en tiempos indignos. A luta contra los agrotòxicos.
Agrotóxicos en Argentina: “Están dañando el territorio, la genética y el futuro”

Resumen Latinoamericano/Mu, 17 de julio de 2015 –
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 El periódico Mu, editado por la cooperativa La Vaca, dedicó su edición del mes de julio a indagar sobre las consecuencias de la aplicación de los agrotóxicos. Reproducimos un reportaje a la doctora que en el Chaco integra la Red de Salud Popular “Dr. Ramón Carrillo”, María del Carmen Seveso. Investigó la relación entre las enfermedades que afectaban a las embarazadas, los bebés que nacían con malformaciones y los agrotóxicos. Los resultados son para ella las pruebas que acusan a los responsables de mirar para otro lado. Qué encontró y qué reclama. Viene de un lugar llamado Resistencia, con un pendrive repleto de fotos de bebés nacidos con malformaciones, órganos fuera de lugar, caras deformes, narices enormes, ojos imperceptibles, pies torcidos. “Más que fotos, son pruebas”, apunta con tono inquisidor hacia los responsables de seguir las puntas de este ovillo que hilvanaron médicos de distintos puntos del país, entre quienes ella se ha erigido como referente. “¿Quién va a pagar por esto?”, pregunta señalando esas dolorosas fotografías. La doctora María del Carmen Seveso mostrará estas pruebas en una de las conferencias del Congreso de Ciencia Digna, y luego se quedará charlando con la doctora Delia Aiassa, de la Universidad Nacional de Río Cuarto, especialista en investigar el daño genético que produce la exposición a agrotóxicos. Están planeando algo concreto: conectar las imágenes con la evidencia científica. Esa foto que las mostraría a ellas coordinando sus trabajos -y que no estará nunca en ningún pendrive ni diario ni nada- es otra prueba: la de cómo se construye la ciencia digna en tiempos indignos. 

María del Carmen Seveso
Los síntomas

 Seveso es médica especialista en Terapia Intensiva y en Terapéutica Farmacológica, entre otras cosas, y siempre trabajó con adultos. Primero en el servicio de terapia intensiva del Hospital Perrando, en Resistencia. Luego se radicó en Presidencia Roque Sáenz Peña (segunda ciudad más poblada del Chaco), donde dirigió el Servicio de Terapia del Hospital 4 de Junio, del cual actualmente es miembro del Comité de Bioética. Además, integra el Consejo de Bioética de la provincia del Chaco y forma parte de la Red de Salud Popular doctor Ramón Carrillo, una organización que desde hace años acompaña el reclamo de los pueblos fumigados. Su caso es similar al de otros profesionales de la salud con las antenas paradas: una médica intensivista que empezó a notar cosas raras. “Insuficiencias renales, deformidades físicas, y después los cánceres – enumera-. Recibía personas que tenían enfermedades gravísimas: unos entraban en coma, otros con insuficiencia respiratoria, y no tenían un diagnóstico, pero la enfermedad había evolucionado muy rápidamente. ¿Qué estaba pasando entonces? Había algo que aceleraba los procesos”. Seveso comenzó una investigación digna de cualquier serie norteamericana, con las herramientas que tenía a mano: recurrió al sistema de datos del servicio de terapia intensiva del Hospital 4 de Junio (centro de salud pública de referencia de la mitad de la población del interior del Chaco) para ver qué decían esos números. Cuenta:– “En la base de datos de pacientes internados se registraba un número importante de mujeres con patología del embarazo y puerperio”.– “Predominaban las que tenían complicaciones graves derivadas de la hipertensión inducida por el embarazo”.– “En el año 2007 aumentaron en tal magnitud que igualaron a la suma de los últimos 5 años anteriores. En ese año la siembra de soja transgénica fue la más importante y así también las fumigaciones”.– “Comenzamos a sospechar que había una relación, al igual que con otras enfermedades como cáncer en personas más jóvenes y con evolución tórpida, enfermedades neurológicas, respiratorias, etc.”– “En ese momento nos acercan la estadística de neonatos con malformaciones que provienen de la misma región y que triplicaban los datos de otros servicios de zonas no fumigadas”.– En la actualidad, dice, la multiplicación es mayor.– Según los parámetros de la normalidad, el 10% de las mujeres embarazadas puede tener esta problemática. En el Hospital 4 de Junio, “de 10 que llegaban a Tocoginecología, 4 eran casos con hipertensión inducida por el embarazo”. Es decir, el 40 por ciento.Seveso cuenta que la hipertensión durante el embarazo es una enfermedad sistémica, que enferma a los vasos y afecta a todos los órganos, y que produce nacimientos de bebés en condiciones críticas: neonatos con bajo peso, puede haber desprendimiento de placentas, corre riesgo la vida de la madre y el niño.

Ir al campo











Hay que imaginarse a María del Carmen Seveso, metro cincuenta de estatura, andando por los pueblos del interior del Chaco, visitando los lugares de donde llegaban sus pacientes enfermos para atar los cabos sueltos: “Se sumaba a nuestra sospecha que en los pueblos, cuando hablábamos con el personal de salud -entre ellos médicos, agentes sanitarios- nos decían que el problema que tenían era que las embarazadas presentaban hipertensión”. Es decir, la tendencia que notaban en el hospital también la constató en los lugares que visitaba. ¿Cómo comprobar si esa tendencia estaba relacionada con los agrotóxicos? No contaban con laboratorios. “Justo en ese momento nos llega un informe de una investigación realizada en Colombia por el doctor Jaime Altamar Ríos que mencionaba que los herbicidas que se utilizan actualmente provocan los mismos cambios endócrinos y hormonales que se describen en estos embarazos”.
Eureka. Discapacidad transgénica
Luego llegaron las evidencias científicas. “Hasta entonces no había muchas investigaciones publicadas, pero luego se pudo acceder a publicaciones de todas partes del mundo y de nuestro país que informan sobre investigaciones que demuestran que todos estos productos biocidas son los responsables del cambio en el número de autismo, obesidad, problemas de aprendizaje”, dice Seveso. Su conclusión es contundente: “Todo esto nos hace pensar que ya no tenemos que preguntarnos si estas enfermedades son causadas por el envenenamiento del medio ambiente y la calidad de la alimentación, sino al revés: tendríamos que preguntarnos qué enfermedad no es causada por esto”. Otro dato escalofriante: la doctora Seveso conecta la cantidad alarmante de escuelas para jóvenes discapacitados que hay en Chaco con esta exposición crónica a los biocidas, término que refiere al paquete de semillas transgénicas y agrotóxicos.En la actualidad son cuarenta las escuelas públicas, distribuidas en distintas localidades, y en las ciudades más grandes hay muchas más instituciones privadas. “Donde yo vivo, con una población de 89.800 habitantes hay aproximadamente 7 escuelas privadas y concentran una matrícula de 700 niños con capacidades diferentes”, cuenta Seveso. Y razona: “Si conectamos este dato al nuevo modelo de siembra, se entiende por qué hace 10 años la cifra de matriculados, en Sáenz Peña y en ese tipo de escuelas, era sólo de 100. Es decir, 7 veces menor”. Concluye con otro dato clave: “Los niños provienen de zonas fumigadas, prácticamente sin excepción”.

El mapa del cáncer

Durante el 2011 la doctora Seveso formó parte de un equipo de investigación encabezado por Mirta Liliana Ramírez, geógrafa, encargado de relevar las condiciones epidemiológicas de los departamentos de Bermejo, Independencia y Tapenagá, de la provincia del Chaco. Los resultados son contundentes: – En la localidad de Napenay (1.960 habitantes) el 38,9% declaró haber tenido en los últimos 10 años algún familiar con cáncer.– En Avia Terai (5.446) el porcentaje era de 31,3%.– En La Leonesa ( 8.420), el 27,4% tuvo un familiar con cáncer. – En Campo Largo, el 29,8%. – En otros pueblos testigos que fueron encuestados y que son ganaderos - Charadai y Cotelai - las respuestas positivas bajaron: sólo el 5 y el 3 %.El informe también resaltaba el “alto grado de inequidad” observado al analizar la exposición a los agrotóxicos: “Se observa una exposición desigual en los residentes de las zonas rurales y urbanas, en los diferentes estratos económicos de las zonas urbanas, entre los hombres y las mujeres, y los trabajadores del sector formal e informal; y en particular, los niños y los ancianos”. Seveso lo traduce a la realidad chaqueña: “Hay mucha gente muy pobre. La mayoría no tiene agua potable y se abastecen de los pozos y de aljibes, que es agua contaminada con agrotóxicos. Bañan a los bebés con esa agua, y la toman, porque no tienen ni para comprar un bidón. Son los más vulnerables”, reitera.

Lo insostenibile

El diagnóstico de la doctora Seveso culmina en un razonamiento elemental, básico a toda ciencia: “En un sistema sano todo está regulado. Es un tipo de sistema que, cuando hay una disrupción, funciona mal. Es como cuando vos alterás algo del sistema operativo de una computadora: se para, o se cuelga, o se te mete un virus. En síntesis: funciona mal. En un sistema de equilibrio perfecto, este tipo de alteraciones que representan los biotóxicos logran romperlo, porque son disruptivas. Los venenos estos, todos, son productos diseñados para matar la vida”.¿En qué etapa estamos ahora? “Estamos en una etapa en que la difusión está: la gente sabe de qué estamos hablando. Los políticos también. Entonces, cuando haya necesariamente un cambio por lo insostenible de este discurso, ellos van a ser solidariamente responsables por su negligencia. Esto recién empieza. Van a tener que pagar. Me duele mucho que los organismos de derechos humanos no asuman esto como una transgresión a esos derechos, en su máxima expresión: están dañando el territorio, la genética y el futuro. Y si no hacemos algo, va a ser cada vez peor. Porque en el futuro van a venir nuevas biotecnologías y nos va a resultar muy difícil identificarlas. Y hasta que eso ocurra ya habrán hecho aún más daño; tendremos que empezar a investigar de nuevo. ¿Viste esas películas de la devastación? Va a ser así algo así. En medio de esta postal desoladora, ¿qué representa la ciencia digna? No me considero científica. Yo soy de trinchera, trabajé con lo que muestran los pacientes y fui al lugar donde se enfermaban para entender qué pasaba. Creo que la ciencia digna es eso: tratar de explicar que pasó y que pasa con la sociedad en el momento en que te toca actuar. ¿Es posible que la ciencia hoy juegue ese rol? Te tendría que definir primero a la otra ciencia: la ciencia adicta al poder, la ciencia hegemónica que siempre dijo lo que al poder le interesaba que diga, la ciencia al servicio de las corporaciones, siempre con la complicidad de los Estados. Las universidades públicas investigan hoy con fondos de Monsanto y de las farmacéuticas. ¿A quién le sirve eso? Creo que la ciencia digna es Andrés Carrasco, que investigó y descubrió al monstruo: el glifosato. Lo dijo públicamente y murió peleando por eso. Y quizás sea un poco ese nuestro destino: pelear hasta morir, porque ya somos grandes”.

martedì 18 agosto 2015

UE e OGM: la grande truffa

di Chiara Madaro

La direttiva sugli organismi geneticamente modificati (Ogm) pubblicata a marzo di quest’anno e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea con il titolo di “DIRETTIVA (UE) 2015/412 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11 marzo 2015”, è la rappresentazione di quanto l’esperienza dell’Unione Europea sia, ormai, diventata un coacervo di interessi, lontani dai principi ispiratori che hanno permesso il suo battesimo. La direttiva in questione modifica la precedente (2001/18/CE) e consente agli Stati Parti di legiferare autonomamente sul proprio territorio, questo, almeno, quanto divulgato. Ma cosa c’è d’altro?
Dal testo della Direttiva si evince come, di fatto, non esistano leggi comunitarie realmente restrittive in materia di organismi geneticamente modificati. Una ammissione di incapacità nel raggiungimento di accordi comuni, di una visione limitata sul futuro agricolo dell’Europa. Una visione che ha già impoverito grossi settori produttivi italiani e distrutto pregiate cultivar autoctone e, dunque, biodiversità mediterranea/capacità produttiva.
La direttiva emanata in marzo, tra l’altro, si contraddice nel momento in cui, dopo aver citato ciò che non è possibile non ricordare, ovvero il principio di precauzione e la necessità di accertarsi che le tecnologie utilizzate non danneggino ambiente e salute umana, afferma quanto segue:
(5) “Quando un OGM è autorizzato ai fini della coltivazione conformemente al quadro normativo dell'Unione sugli OGM e soddisfa, per quanto concerne la varietà da immettere in commercio, le prescrizioni del diritto dell'Unione sulla commercializzazione delle sementi e dei materiali di moltiplicazione delle piante, gli Stati membri non sono autorizzati a vietare, limitare o ostacolare la sua libera circolazione nel loro territorio, salvo che alle condizioni definite dal diritto dell'Unione”.
Oltre che un evidente lesione del diritto di sovranità nazionale, un veto, dunque, al divieto di utilizzo di Ogm. Un veto che, di fatto, annulla il messaggio che ha reso questa direttiva così popolare (o impopolare) tra coloro che lottano contro la biotecnologia degli Ogm da anni. Perché se anche fosse vero che il nostro Paese legiferasse ‘contro’, se un produttore – come già accade – decidesse di avviare una coltivazione Ogm, con queste poche righe, nessuno potrebbe impedirglielo.
In più parti, inoltre, la nuova Direttiva specifica che i divieti a cui gli Stati possono ricorrere riguardano la coltivazione e non il libero transito e commercio di prodotti Ogm. Al punto 16 si afferma, infatti:
(16) Le limitazioni o i divieti adottati ai sensi della presente direttiva dovrebbero riguardare la coltivazione, e non la libera circolazione e l'importazione, di sementi e materiale di propagazione vegetale geneticamente modificati, come tali o contenuti in prodotti, e dei prodotti del loro raccolto, e dovrebbero inoltre essere conformi ai trattati, in particolare per quanto riguarda il principio di non discriminazione tra prodotti nazionali e non nazionali, il principio di proporzionalità e l'articolo 34, l'articolo 36 e l'articolo 216, paragrafo 2, TFUE.
Inutile dire che questa norma
Un fatto grave se si pensa che nessun Ogm può dichiarasi sicuro per il semplice fatto che non conosciamo tutta la sequenza genica di ogni essere vivente e, dunque, non siamo in grado di comprendere a cosa ci condurrebbe o ci sta conducendo l’uso di Ogm e, non dimentichiamolo, di pesticidi, necessità collaterale alla biotecnologia agraria.
Secondo l’Istituto Biologico Italiano: “La funzione del Dna è ancora sconosciuta. In particolare è sconosciuto il rapporto fra i geni e anche il rapporto di ogni parte con l’intera molecola. Pertanto è molto rischioso modificare il Dna introducendo un gene, perché non si sa che cosa questo possa provocare. E’ possibile che provochi l’attivazione di un altro gene con produzione di sostanze indesiderate (fenomeni allergici sull’uomo)”[1]. Motivo per cui l’Ibi contesta il principio di ‘soglia minima di tolleranza’ affermando che si tratta, di fatto, di un raggiro per i consumatori. Un raggiro di cui siamo già vittime in quanto, senza saperlo, già consumiamo prodotti Ogm importati dagli Usa dietro concessione della Comunità Europea. Se qualcuno si fosse chiesto come mai si stia assistendo ad un’escalation delle allergie alimentari e il motivo per cui è costretto a scegliere tra i piaceri della buona tavola e la salute, forse, inizia a farsi un’idea.
E può iniziare a farsi un’idea anche chi si scopre resistente ad alcuni antibiotici. Risale ancora agli anni 90 un rapporto scientifico depositato alla Camera dei Comuni britannica sull’indebolimento di difese immunitarie dovuto al consumo di alimenti Ogm, mentre una ricerca olandese ha provato che il Dna contenuto in un alimento non viene immediatamente disattivato ma impiega sei minuti, un tempo durante il quale può passare ai batteri dell’intestino il gene di resistenza agli antibiotici.
Il Premio Nobel per la Pace Vandana Shiva, biologa e attivista nel campo dell’agricoltura tradizionale afferma: “Con l’industrializzazione e la globalizzazione degli alimenti, il problema della sicurezza alimentare diventa sempre più allarmante. Su scala globale, assistiamo al diffondersi di nuove epidemie e alla mutazione di patologie che diventano più virulente. (…) Negli ultimi decenni si sono avvicendate due generazioni di nuove tecnologie connesse alla produzione alimentare. La prima grande trasformazione comporta l’impiego di prodotti chimici in agricoltura propagandato con il nome di Rivoluzione verde. I veleni chimici utilizzati in guerra vengono riciclati in tempi di pace e distribuiti come fertilizzanti sintetici e pesticidi. L’agricoltura e la produzione alimentare si trovano così a dipendere da armi di distruzione di massa”[2].
L’Encefalopatia bovina spongiforme con la sua variante umana (morbo di Creutzfeld-Jacob), febbre suina, encefalopatie non mortali ma gravemente invalidanti, aviaria, sono alcuni esempi di mutazioni di virus che dagli animali passano all’uomo generando morti e malattie degenerative gravi.
Secondo la scienziata indiana Shiva, lo Stato, anziché garantire i cittadini ed avviare protocolli di controllo nei confronti delle grandi imprese, “le lascia libere di agire e impone restrizioni ai piccoli produttori e alle culture locali fino a sancirne l’illegalità”. Ancora al momento in cui scriveva (2005) Shiva valutava positivamente la moratoria dell’Unione Europea sui prodotti agricoli e alimentari geneticamente modificati in quanto tutelava il diritto alla sicurezza alimentare. Ma molti prodotti confezionati, ad esempio, non sono soggetti ad obbligo di etichettatura per cui non sappiamo cosa stiamo ingerendo e, dunque, non possiamo scegliere, né fare una spesa consapevole.

Di fatto il fermo imposto dalla UE era l’unico ostacolo alla libera circolazione di alimenti senza controllo provenienti da Stati Uniti e Argentina, tra i maggiori produttori di erbicidi e agricoltura Ogm.
Da qui la pronta reazione di questi colossi agricoli in cerca di nuovi e fruttuosi mercati: il 13 maggio 2003 Stati Uniti, Argentina e Canada hanno impugnato la moratoria UE lamentando una discriminazione nei confronti dei loro prodotti e affermando che non poteva essere applicato il principio di precauzione ai prodotti Ogm.
Non sono in pochi, oggi, a sospettare che la nuova direttiva europea sia un comodo ‘cavallo di Troia’ in favore dell’accordo Commerciale Ttip, Accordo Trans-atlantico per il commercio e gli investimenti con gli Usa (ed escludendi i Paesi del Bric, Brasile, Russia, India, Cina). Un accordo che abbatterebbe molte barriere al momento esistenti, che viene pubblicizzato come un modo per facilitare gli scambi e dunque le opportunità di lavoro, di fatto un modo per le grosse imprese transnazionali per oltrepassare e annullare limiti ambientali e diritti imposti attualmente dalle leggi nei Paesi dell’Unione. Cosa se non un affronto per la sovranità degli Stati?
Pubblico una serie di 20 interrogativi posti nel 2000 dall’Istituto Biologico Italiano in un libretto informativo e divulgativo sugli “Alimenti geneticamente modificati”. Nella serie di interrogativi – che dopo quasi 15 anni rimangono senza serie risposte o azioni che vadano nella direzione dei diritti fondamentali dell’Uomo – anche l’introduzione ad una questione scabrosa, di cui poco si parla e che può dare la misura di quanto la scienza, sottomessa al potere di grosse entità finanziarie e farmaceutiche, abbia aperto scenari a dir poco raccapriccianti riguardanti l’umanizzazione di alcune specie animali compatibili con il trapianto di organi e parti di corpo.
Venti quesiti non risolti:
1-   Come si pensa di far fronte al pericolo che la manipolazione del Dna abbia effetti imprevisti, dovuti al fatto che la maggior parte dei geni di ogni organismo sono del tutto sconosciuti, come pure sono sconosciute le relazioni che intercorrono tra un gene e l’altro?
2-   Come si può evitare che alcune caratteristiche genetiche introdotte artificialmente nelle piante coltivate, come ad esempio la resistenza agli erbicidi o ad alcuni parassiti, non venga trasmessa, come già molto spesso è avvenuto, alle piante selvatiche rendendo queste pericolosamente infestanti?
3-   Come si può evitare che gli insetti ‘utili’ vengano distrutti, come già molto spesso avvenuto, alle piante selvatiche, rendendo queste pericolosamente infestanti?
4-   Come si può garantire che le modificazioni genetiche non scatenino delle caratteristiche di tossicità (come è avvenuto per la soia ibridata con la noce del Brasile e con il triptofano negli Stati Uniti) pericolose per chi assume le sostanze modificate?
5-   Come si pensa, in definitiva, di poter controllare i miliardi di reazioni, quasi tutte sconosciute, che legano le infinite forme di vita, in un equilibrio che si è formato nei millenni e che è in continua evoluzione? Se l’uomo incide comunque in questo equilibrio e porta danni all’ambiente anche con le tecnologie fino ad oggi adoperate, non è questa un’ottima ragione per usare maggiore cautela in un territorio (quello delle manipolazioni genetiche) in cui l’azione può avere un impatto ancora più devastante ed in cui la conoscenza è solo agli albori?
6-   Come si può evitare che la scelta di alcune specie a più alto rendimento e di maggiore interesse economico per chi non solo detiene il brevetto, ma può allo stesso tempo condizionare i mercati globali, porti alla scomparsa delle colture e tradizioni locali (di minore impatto ambientale) e soprattutto ad una rapida riduzione della biodiversità?
7-   Come si può evitare che i paesi in via di sviluppo, ricchi di diversità genetica e privi di tecnologie, non subiscano una nuova forma di colonizzazione da parte dei Paesi detti sviluppati, che imporranno loro i diritti di autore su ogni coltivazione commerciale?
8-   Come si può evitare che i brevetti sulle sequenze geniche e sui tessuti o cellule umane ostacolino un normale progresso scientifico con l’introduzione del segreto industriale nella ricerca?
9-   Come mai in questo settore non ci si è informati sul risultato disastroso che una simile legge ha prodotto negli Stati Uniti? Come si legge sulla rivista scientifica Nature (12/12/96, vo.384, p.500), negli Usa i maggiori istituti di ricerca come lo stesso Nih, non richiederanno mai più brevetti su sequenze geniche o materiale cellulare e condannano la prassi di concederli su scoperte e conoscenze che rappresentano strumenti indispensabili per la ricerca.
Per quale ragione l’Europa dovrebbe ripercorrere una strada già rivelatasi errata altrove?
10 – Se l’industria pensa al benessere del consumatore, per quale ragione essa ha fino ad oggi ostacolato gli sforzi di quest’ultimo di soddisfare il suo diritto ad una chiara etichettatura, che gli conceda la possibilità di scelta dei prodotti da consumare?
11 – Se l’industria vuole soddisfare la necessità di cibo nel mondo, ovvero ‘risolvere il problema della fame’, per quale ragione ha brevettato la tecnologia Terminator, che rende le piante sterili alla seconsa risemina, danneggiando gravemente gli agricoltori dei Paesi poveri?
12 – Se gli organismi modificati geneticamente causano danni alla salute o all’ambiente, chi pagherà i costi di questi danni? La mancanza di una chiara etichettatura rende impossibile risalire ai responsabili e la mancanza di studi scientifici adeguati rende impossibile fare una previsione sulla entità del danno (ragione per cui nessuna compagnia di assicurazione ha mai accettato di firmare una polizza!).
13 – In materia di xenotrapianti, come si può evitare che eventuali virus latenti, non identificabili perché sconosciuti, vengano trasmessi dall’animale ‘donatore’ nell’organismo del ‘trapiantato’ con il rischio di scatenare, attraverso quest’ultimo, una nuova imprevedibile epidemia (come quella dell’Aids) causata dall’adattamento (molto aiutato dagli immunosoppressori impiegati) di uno di questi virus alla specie umana?
14 – Sempre in materia di xenotrapianti, come si può accettare (o evitare) che il trapiantato divenga quella che i suoi chirurghi chiamano una chimera umana, le cui cellule, in tutto l’organismo, sono mescolate con quelle dell’animale donatore?
15 – Se è consentito creare animali transgenici ai fini della ricerca in modo tale che la loro sofferenza o menomazione fisica siano proporzionali ai risultati ad all’utilità medica per l’uomo, con quali criteri potranno essere valutate la sofferenza e le menomazioni fisiche degli animali?
16 – Nel caso di animali umanizzati per la ricerca scientifica o per la donazione di organi con l’introduzione di alcuni geni umani, quale numero massimo di geni si ritiene lecito inserire nell’animale (è facile immaginare che la tendenza sia verso una umanizzazione sempre maggiore per rendere il modello animale sempre più simile all’uomo o l’organo da trapiantare sempre meno soggetto al rigetto) in base ad un normale concetto di rispetto del corpo umano ed in base anche al recente voto dell’Assemblea Generale dell’Onu) (cfr. la domanda successiva)
17 – L’Assemblea Generale dell’Onu ha fatta sua , il 10/12/98, la Dichiarazione sul Genoma Umano dell’Unesco (11/97) per cui il Genoma Umano è patrimonio dell’Umanità e non può essere oggetto di attività commerciali; come si può conciliare questo importante accordo internazionale con una legge che consente i brevetti sulle parti del corpo umano, privatizzandole ed equiparandole ad una merce?
18 – Come si può brevettare, dunque equiparare ad una invenzione, quella che è la scoperta di elemento esistente in natura, di una parte o di un tutto di un essere vivente, che costituisce un elemento del patrimonio genetico tramandato da sempre su questo pianeta? Se anche (ma questo non è il caso dei brevetti sui geni o sulle parti del corpo umano) vi è l’introduzione di una modifica da parte dell’uomo, questo non consente a quest’ultimo di dichiararsi ‘l’inventore’. Come ha detto il giudice Marc Nadon, della Corte Federale canadese nel rifiutare il brevetto all’oncotopo, “…hanno introdotto una modifica nel topo, non hanno mica inventato il topo! Un animale non è materia prima per invenzioni”.
19 – Cui prodest? Cioè: a chi giova? Visto che gli aumenti di produzione, anche quando presenti, sono minimi e che i rischi sono così alti, a chi gioveranno gli Ogm se non  agli azionisti delle industrie biotecnologiche?
20 – Se la diffusione di Ogm dovesse rivelarsi un terribile errore, come si potrà ripulire il pianeta?



[1] Istituto Biologico Italiano, “Alimenti geneticamente modificati”, 2000
[2] Vandana Shiva, “Il bene comune della terra”, p.169, 2005, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano