Di Chiara Madaro
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Sapete che se apriste una srl con capitale sociale pari a 10.000€
sareste in grado di ricevere l’approvazione del Governo per l’esplorazione
petrolifera?
E’ quello che è successo alla fortunata società San Leon, con sede in un inanimato appartamento di uno scalcinato
palazzo che si trova a Monteroni, paese della provincia di Lecce dalla cattiva
fama, purtroppo.
La notizia è uscita nel 2010
in seguito ad un’interrogazione parlamentare promossa da
Gabriele Cimadoro, IdV. La
San Leon già nel 2008 presentò al Ministero dello sviluppo
economico tre domande di ricerca in mare di idrocarburi al largo della Sicilia,
in prossimità della Riserva marina delle isole Egadi per un’area totale di circa
1000Kmq. Sebbene le aree su cui insiste la richiesta di perforazione abbiano
un’economia basata su pesca e turismo, il CIRM, Commissione per gli idrocarburi
e le risorse minerarie e il Comitato tecnico per gli idrocarburi e le geometrie
hanno dato parere favorevole al progetto. “Dati gli elevati rischi connessi agli impianti
off-shore, di cui si ha un tragico monito negli avvenimenti nel golfo del
Messico – dice Cimadoro - appare agli interroganti irrisorio un capitale
sociale di appena 10.000€ da parte della società concessionaria (…) risultando
una società inattiva”. Obiezione legittima. Ciononostante la San Leon ha all’attivo 5
permessi in Italia di cui due on shore nella Pianura Padana e tre off shore al
largo della Sicilia, appunto.
Appare, poi, singolare che questa piccola e povera società abbia avuto
successo su un’area fortemente appetibile da altri petrolieri tra cui due
importanti aziende statunitensi.
Ma ad oggi il problema è ancora in piedi e il 17 ottobre 2012 l’On. Cimadoro torna a ricordare che la Commissione ambiente
del Parlamento europeo ha approvato una norma per la quale: “Le compagnie petrolifere devono essere
ritenute responsabili dei costi e di tutti gli eventuali danni ambientali ed avere i mezzi per pagarli, altrimenti
non potranno ricevere le licenze per trivellare nelle acque europee”.
Un’inquietudine del tutto giustificata soprattutto se si pensa alle concessioni in sanatoria che il Ministro per lo sviluppo economico
ha recentemente autorizzato rispetto a trivellazioni che nei nostri mari
avranno luogo a meno di 5
miglia dalla costa permettendo sia la creazione di un
rischio ambientale da parte di soggetti che non hanno i requisiti per
trivellare sia una chiara infrazione
delle disposizioni europee.
“Ma i petrolieri – si ricorda in Parlamento – (…)hanno
già fatto sapere di essere pronti a estrarre tutto il nostro oro nero,
investendo nell’arco dei prossimi quattro anni 12 miliardi di euro per nuovi
impianti produttivi in tutta Italia. Un fatto preoccupante se si pensa che il settore pubblico/privato ha visto emergere
numerosi casi di inquinamento delle aste da parte dei soggetti non aventi
diritto, sia dal punto di vista patrimoniale, sia dal punto di vista
tecnico, attraverso (…) un’alterazione se non la stessa partecipazione diretta
delle cosche alle gare di concessione pubbliche”. D’altra parte anche secondo
uno studio della Campagna per la
Riforma della Banca Mondiale, le compagnie petrolifere non si
fanno scrupolo di giocare con i delicati equilibri internazionali per ottenere
condizioni commerciali più vantaggiose da parte dei governi ospiti.
Preoccupante perché da nord a sud le
richieste di prospezione e trivellazione per gas e petrolio aumentano senza
pari negli ultimi anni. Al 2012 in Italia sono presenti
91 permessi in terraferma e 24 off
shore. Il primato spetta all’Emilia Romagna con ben 39 permessi tutti on shore. Preoccupante
perché, senza ombra di dubbio, queste attività comportano perdite di materiale
petrolchimico in ogni parte della ‘filiera’: dalla raccolta alla raffinazione
al trasporto. Preoccupante perché queste perdite hanno effetti deleteri sulla
salute dei viventi e da questi danni non si torna indietro.
Lo dimostra uno studio condotto nel
2010 dai ricercatori Maria Rita D’Orsogna,
e Thomas Chou presso il Dipartimento di Scienze Matematiche della
California State University at Northridge, Los Angeles.
La ricerca ricorda che in un Rapporto ufficiale
delle Nazioni Unite viene fortemente raccomandato di evitare ogni tipo di
contatto con H2S, idrogeno
solforato, a causa dei gravi effetti tossici che derivano dall’esposizione a
questa sostanza.
L’idrogeno solforato è, infatti, una componente degli idrocarburi paragonabile
al cianuro ed esposizioni ad alte dosi di questa componente possono provocare
anche morte istantanea. Ma anche a basse dosi non fa sconti. In particolare i risultati della ricerca evidenziano
che fra gli effetti non letali, i danni sono di natura neurologica e polmonare.
Fra i danni di natura polmonare i sintomi ricorrenti sono edema polmonare,
rigurgiti di sangue, tosse, dolori al petto, difficoltà di respirazione. Ma
ancor più preoccupanti sono i disturbi neurologici: declino intellettuale, mancanza di concentrazione, difetti della
memoria e dell’apprendimento, elevati livelli di irritabilità, stati di
depressione, confusione, perdita di appetito, mal di testa, scarsa memoria,
svenimento, ansia, affaticamento. Fatti ricordati al Governo in occasione di
un’interrogazione al Senato presentata nel novembre 2011 dall’On. Poli Bortone
che rammenta: ”In particolare è stato dimostrato che in condizioni di
stress recede il livello di altruismo e di cooperazione tra gli individui e si
registra un incremento delle condotte aggressive”.
Sintomi di disturbi irreversibili che entrano come un dato di fatto
nella nostra società.
Negli Stati Uniti la ricerca indaga da tempo sui costi sociali di nuove
generazioni nate con capacità intellettive limitate. Si tratta di realtà
dilaganti e che interessano soprattutto le giovani generazioni nate e cresciute
nell’era del petrolio, una sostanza che già ci sta presentando il conto. Proviamo
anche noi nel nostro piccolo a pensare a quanti insegnanti di sostegno
circolano nelle scuole oggi e quanti 15-20 anni fa. Molti di più. E sono anche
pochi rispetto alle effettive esigenze. Casualità? La scienza non crede al
caso.
Secondo D’Orsogna e Chou la
possibilità di contaminazione non è una possibilità ma una certezza. “La
presenza di zolfo – di cui il petrolio adriatico è ricco (ndr) – rende il
greggio fortemente corrosivo e tende a danneggiare gli oleodotti” e quindi
“tutte le operazioni di trattamento dei prodotti petroliferi, a qualsiasi
livello, hanno la possibilità di emettere quantità più o meno abbondanti di
idrogeno solforato sia sotto forma di disastri accidentali, sia sottoforma di
continuo rilascio all’ambiente durante le fasi di estrazione, stoccaggio,
lavorazione e trasporto del petrolio”. Questo studio dipinge un quadro completo
di ciò che effettivamente succede al di là delle assicurazioni che arrivano
dalle compagnie petrolifere: dalla raccolta degli idrocarburi con
l’inquinamento della falda acquifera da cui ci approvvigioniamo per bere,
lavarci e cucinare, alla necessaria lavorazione sul posto con la costruzione di
grandi strutture dove il processo di bruciamento per l’idro-desulfurizzazione è
visibile all’esterno sotto forma di fiamma perenne, al trasporto attraverso
navi che usano un combustibile più economico di quello dei mezzi di locomozione
di massa ma più inquinante ai frequenti casi di blowout, cioè di esplosione dei
pozzi. Tutto questo rende atmosfera, acque e terreno dei luoghi in cui si
raccoglie petrolio ben 300 volte più contaminate delle normali città. Come è
successo a Trecate, in provincia di Novara, nel 1994 quando il cattivo funzionamento
delle valvole di sicurezza di un impianto petrolchimico provocò un’esplosione
contaminando un’area pari a 100Km quadrati. Ad oggi la zona non è coltivabile e
chi vive nei paesi circostanti è esposto a livelli di H2N superiori alla norma.
Nella sola Lombardia oggi si registrano ben 17
pozzi attivi, 14 concessioni in avvio e 11 richieste in esame.
Si sa che il nostro petrolio sia di scarsa qualità in quanto non si
trova allo stato puro ma contiene forti concentrazioni di zolfo e altri
minerali e quindi il processo di estrazione e raffinazione è estremamente
costoso. Tuttavia negli ultimi anni le richieste di raccolta di petrolio e gas
aumentano in maniera esponenziale su tutto il territorio italiano. Perché? Il nostro paese rappresenta il paradiso per
i petrolieri: un paradiso fiscale. Lo dice un Dossier del Wwf che dice: “(…)estrarre
idrocarburi nel nostro Paese è vantaggioso solo perché esistono meccanismi che
riducono a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio
l’ambiente. Ad esempio, le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte
annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di petrolio
estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i primi 80
milioni di metri cubi in mare sono
esenti dal pagamento di aliquote allo Stato. Ma non è finita qui. Le
aliquote (royalties) sul prodotto estratto sono di gran lunga le più basse al
mondo e sulle 59 società operanti in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (ENI,
Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed ENI/Mediterranea idrocarburi)”.
E dire che per
convincere le popolazioni locali della convenienza di ospitare una centrale, le
compagnie non parlano d’altro che di royalty. Difficile non pensare ad un
inganno a favore di pochi. Un inganno ben esposto in Senato da Poli Bortone che,
in relazione ad una serie di richieste off shore in un’area protetta al largo
della costa pugliese dice: ”Sul suo sito ufficiale la Northern Petroleum
afferma di avere come missione quella di acquisire siti esplorativi e
produttivi a basso costo d'ingresso, allo scopo di aumentarne il valore per i
propri azionisti”.
E parla anche del tentativo di
raggirare l'art. 6, comma 2, della legge
n. 9 del 1991 secondo la quale non è possibile concedere prospezioni su
superfici estese oltre i 750 Km quadrati. Un tentativo riuscito dato
che il Ministero ha rilasciato una serie
di permessi ricadenti nella stessa area per una superficie totale di oltre 6.000 Km quadrati. Lo
rileva il TAR di Bari a proposito della Northern Petroleum che “ha
illegittimamente scorporato il progetto in più lotti su aree di mare (…)
adiacenti, così impedendo la doverosa valutazione unitaria di impatto
ambientale. (…)l'obiettivo della normativa – afferma l’On. Poli Bortone - non
può essere aggirato e dichiara l'illegittimità dei provvedimenti di VIA lì dove
prevedono il rilascio di più permessi di ricerca alla medesima società per
ambiti marini adiacenti, a fronte del divieto, stabilito (…) dalla legge”. Non
può essere possibile tacere nemmeno il fatto che nei fondali dell’Adriatico meridionale giacciono circa 20 mila bombe
chimiche. Si tratta in maggioranza di bombe all’iprite affondate nel 1943
insieme alla nave statunitense ‘John Harvey’ ma non mancano ordigni
riconducibili alla guerra dei Balcani. Per non parlare delle navi - 25 registrate
dai Lloyd’s di Londra, 40 secondo varie Procure. Navi affondate su cui grava il
sospetto del traffico di rifiuti pericolosi. L’uso degli air gun provocherebbe
un disastro. Intanto il 9
novembre 2012 a
Trieste è stata convocata una conferenza internazionale delle regioni
adriatiche allo scopo di valutare le potenzialità di valorizzazione
energetica del mare ed eventualmente pianificarne l'attuazione operativa. Gli
esiti dell’appuntamento costringeranno il Governo a rivedere i permessi già
rilasciati e la normativa.
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